NEVROSI - OZIO - DIZIONARIO DI MISTICA

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NEVROSI - OZIO

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N

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NEVROSI. (inizio)

I. Nozione. Gruppo di disturbi psichici caratterizzati da una sofferenza che si manifesta a livello di pensieri, sentimenti, comportamenti e fenomeni organici. I disturbi nevrotici per essere considerati tali debbono essere originati e mantenuti da fattori psicologici, debbono, pertanto, essere considerati come disturbi funzionali senza cioè un fondamento fisiologico evidente. Appartengono al gruppo delle n. (o "psiconevrosi", i termini sono equivalenti) manifestazioni o "sindromi" quali: l'isteria, le forme ossessivo-compulsive, le fobie, gli attacchi di panico e l'agorafobia, la depressione esogena e reattiva, la n. d'ansia o d'angoscia, l'ipocondria, la nevrastenia e le n. post-traumatiche da stress. A queste manifestazioni si deve aggiungere un altro tipo di n., non più psicogena ma di carattere spirituale, la cosiddetta n. noogena (V. Frankl). Anche se la persona affetta da n. può essere molto disturbata, nei casi più gravi vi può essere una marcata restrizione delle attività lavorative e sociali, in essa è sempre presente la consapevolezza della propria incapacità ad assumere comportamenti o stili di vita diversi: il sentirsi costretto a vivere in una determinata maniera. Nelle n., cioè, la persona non vive nella malattia, (come nelle psicosi, dove le idee deliranti trovano una percezione nel mondo reale), ma avverte la contraddizione fra ciò che sente e i dati che le provengono dalla realtà.

II. Cenni storici. Sebbene il termine n. fosse stato coniato nel 1777 dal neuropatologo scozzese W. Cullen per designare tutto un vasto gruppo di disturbi allora non del tutto spiegabili, le n. hanno accompagnato da sempre l'umanità, anche se si sono espresse in forme diverse dalle attuali. Ciò che è mutato nel corso dei secoli sono state le spiegazioni, le interpretazioni e le forme di cura.

Nelle culture primitive la spiegazione che veniva data alle manifestazioni nevrotiche, all'ansia e all'angoscia era quasi sempre di carattere magico: il disturbo veniva attribuito ad una forma di possessione magica o diabolica. Tale spiegazione ha continuato a prevalere anche in società più complesse, come quella babilonese, dove era curato con pratiche di carattere esorcistico-religioso. Nella civiltà greca prima e in quella romana poi, con il prevalere del pensiero razionale a discapito di quello magico-naturalistico, compare per la prima volta una spiegazione organicista delle malattie mentali in genere e delle n. in particolare. L'isteria e le altre forme nevrotiche non sono più causate da forze misteriose e magiche che si impossessano dell'individuo, ma da un danno organico che produce malattia. Con la decadenza della civiltà greco-romana c'è un riaffiorare del pensiero magico-irrazionale e la spiegazione dei comportamenti nevrotici torna ad essere magico-demonologica. Una tendenza questa che sarà presente per molti secoli. Alla fine del '400 due monaci tedeschi pubblicano il Malleus maleficarum (ll Martello delle streghe), un'opera scritta ad uso degli inquisitori, dove sono elencati i principali segni di stregoneria tra cui spicca l'isteria. Con l'Illuminismo la scienza inizia il suo cammino; ogni cosa del mondo naturale diventa oggetto di studio. La medicina diventa scienza e abbandona le interpretazioni magiche per muoversi alla ricerca delle cause naturali dei fenomeni. L'impostazione è fondamentalmente organicista. Agli inizi dell'800, la psichiatria è una disciplina prevalentemente a-psicologica che si interessa più di descrivere le sindromi che di comprenderle. Sebbene non ci sia un minimo dato scientifico che possa far ricollegare le n. a delle alterazioni cerebrali, non si mette in alcun dubbio che i disturbi del comportamento siano dovuti ad un'alterazione organica cerebrale.

Con il neurologo francese J.M. Charcot ( 1893) le n. divengono oggetto di studio sistematico ed escono dalle interpretazioni del modello medico-organicista. Le ricerche di Charcot furono riprese da Janet il quale evidenziò come alcune n. fossero originate da avvenimenti traumatici lontani negli anni dimenticati dalla persona. Le ricerche di Charcot e Janet aprirono la strada alla moderna concezione delle n. che, grazie soprattutto allo sforzo di Sigmund Freud, iniziarono ad essere studiate ed inquadrate sotto un profilo psicologico.

III. Principali teorie. Le Scuole del profondo. S'intendono tutte quelle scuole di psicoterapia che fanno risalire lo sviluppo delle n. a meccanismi psichici inconsci.

La prima, e per certi versi la più importante di queste scuole, è rappresentata dalla psicanalisi freudiana.

Il comportamentismo. La concezione delle n. è fortemente ispirata alle scoperte di I.P. Pavlov, di B.F. Skinner e altri secondo i quali il comportamento umano, sia nei suoi aspetti "normali" che in quelli "devianti", è determinato in primo luogo dall'ambiente e dagli stimoli che da esso provengono. Elemento base per lo sviluppo di una condotta è l'apprendimento. Così, secondo i comportamentisti, non esisterebbero differenze processuali fra normalità e n., in entrambi i casi ci si troverebbe di fronte a comportamenti che risultano da analoghi processi di apprendimento. Nei casi di n. i disturbi sono da ricondurre: a. sovrapprendimento (manifestazioni ossessive); b. apprendimento scorretto (ansia, attacchi di panico, agorafobia e fobie monosintomatiche); c. apprendimento assente o parziale (fobie sociali).

L'approccio cognitivo. La concezione delle n., per l'approccio cognitivo, è basata sulle acquisizioni della psicologia sperimentale, dell'etologia, della psicologia cognitiva e, per alcuni aspetti, sulle ricerche sul comportamento di attaccamento di J. Bowlby. Anche se conserva dei punti di contatto con il comportamentismo, l'approccio cognitivo assegna un ruolo fondamentale ai processi cognitivi ossia alle convinzioni relative a se stessi e al mondo. Queste cognizioni precedono e determinano sia le emozioni che il comportamento, tanto quello "normale" che quello patologico. Per i cognitivisti, dunque, il comportamento nevrotico non dipende unicamente dagli stimoli ambientali ma dalla rappresentazione, dalle opinioni che ognuno ha del suo ambiente. Ora, queste rappresentazioni e queste opinioni sarebbero il risultato di una complessa interazione tra le conoscenze innate e quelle apprese e gli stimoli ambientali.

La logoterapia e l'Analisi esistenziale. Secondo lo psichiatra viennese V. Frankl, una n. può anche essere la manifestazione a livello psicologico di un problema di carattere spirituale. In questi casi non si parla di n. psicogena, bensì di n. noogena. Frankl distingue, infatti, nell'essere umano tre dimensioni: la somatica, la psichica e la noetica. La noetica, o spirituale, è la dimensione dei valori e dei significati. Una n. noogena si manifesterebbe quando la volontà di significato non viene esaudita, quando cioè l'uomo non riesce a trovare un significato nella vita che la renda degna di essere vissuta. La n. noogena può anche essere l'effetto di un conflitto tra valori apparentemente simili. Anche se di natura spirituale, la n. noogena si presenta con tutte le caratteristiche di una n. psicogena.

G. Froggio

IV. Nella vita spirituale. Uno dei motivi per esporre nei dettagli il concetto di n. in questo contesto è quello di offrire la possibilità di comparare più di due interpretazioni che si possono dare a uno stesso comportamento. Per esempio nel 1800, la psicologia - che era ancora agli albori della scientificità nonostante le illusioni positiviste - interpretava alcuni comportamenti religiosi semplicemente come n. di massa e la religione come una n. ossessiva dell'umanità. Questo avveniva anche perché sembrava che ci fosse un solo modo d'intendere la n. e anche la religione era generalizzata per alcune sue forme esterne tipiche del puritanesimo protestante vittoriano e del dogmatismo cattolico romano di quell'epoca.

Anche in tempi più recenti, la poca chiarezza in materia di n. ha reso difficile distinguere tra l'anoressia e l'ossessione ed il digiuno e la preghiera assidua, sicché le tendenze sadomasochiste sono state confuse con lo spirito di sacrificio e così via. D'altro canto, la psicologia, sempre in materia di n., non sempre è stata lineare: fino a non molto tempo fa l'omosessualità era ritenuta una deviazione; molti psicologi ancora oggi faticano a intravedere l'autotrascendenza nella persona umana e gli esempi potrebbero continuare.

Tutto questo ci porta ad affermare che è molto difficile concordare con una definizione univoca di n. e abbiamo bisogno di più approcci, o meglio, di un approccio multidimensionale per poter essere operativi in psicologia della religione. Per l'approccio organicistico puro, la n. è solo o prevalentemente dal punto di vista psicofisiologico, quindi anche la religiosità e l'aggressività possono essere ridotte ad uno squilibrio ormonale o ad una componente genetico-ereditaria. Altrettanto può avvenire per un approccio sociologico: uno squilibrio socio-ambientale è la causa di una n., la cui terapia può avvenire solo con una ristrutturazione dell'ambiente sociale. Gli esempi si possono continuare, ma la conclusione è sempre la stessa: una sola dimensione non può spiegare la complessa realtà umana sia nelle sue varie forme naturali che nelle sue varie forme patologiche. Per questo motivo, anche la religione, da sola, non può spiegare tutto. La prima obiezione che si può rivolgere a questa impostazione è quella del relativismo. In realtà, questo è un rischio reale sia in assoluto che nel caso specifico della differenziazione tra n. e comportamento "normale" nella condotta religiosa. Solo alcuni criteri, sempre opinabili, possono aiutarci ad essere operativi in questo delicatissimo settore.

L'irrazionalità contrapposta alla ragionevolezza. La n. - comunque la si definisca e di qualunque tipologia e intensità - mostra sempre una grande prevalenza della componente irrazionale nella motivazione del comportamento e in particolare nei processi di scelta. Nel comportamento cosiddetto normale, quindi anche nella religiosità "normale", la componente irrazionale non è esclusa; infatti, le emozioni e i sentimenti, pur non facendo parte della sfera logico-razionale, tuttavia devono essere parte integrante, anche se non sempre dominante, del comportamento umano. Nel comportamento psichicamente disturbato potremmo anche osservare una prevalenza della razionalità o un comportamento apparentemente iper-razionale, specie in alcune forme ossessive in una personalità paranoica. Di fatto, anche in questi casi, si ha uno squilibrio che risulta incoerente con la logica razionale.

La struttura psichica equilibrata non è quella che regola il proprio comportamento e le proprie scelte solo sulla base della logica razionale, in questo caso si potrebbe parlare di robot o di computer. L'equilibrio dinamico è quello che prevede un posto altrettanto rilevante anche al contatto, al vissuto e all'espressione di elementi non razionali ma sicuramente ragionevoli: emozioni, sensazioni, sentimenti, umori, intuizioni, percezioni. Tutto ciò che è umano, è ragionevole anche se non è razionale. La prevalenza stabile del solo razionale non fa crescere la persona umana e altrettanto vale per l'irrazionalità. È ragionevole tutto ciò che fa crescere, sia esso razionale che irrazionale: in questo caso sono determinanti la forma e la misura.

Il nevrotico vive in un modo esagerato, quindi sofferente, rallentando o bloccando la propria e altrui crescita, alcune realtà che altri, cosiddetti normali, vivono in modo più ridimensionato, con minore sofferenza e aiutando la propria e altrui crescita.

La psicologia della religione, considerando il comportamento religioso di un mistico o di un qualunque altro fedele, non può fare a meno di porsi di fronte al quesito di una possibile motivazione nevrotica. Più che sorprendersi, è importante comprendere il perché un processo maturativo sia rimasto bloccato o rallentato e il come si possa aiutare una persona o un gruppo a riprendere il proprio percorso di crescita. Il mistico, come chiunque, può essere considerato una persona nevrotica o "normale" nella misura in cui vive la propria razionalità e irrazionalità in modo ragionevole, ossia "in ragione" o "in funzione" del proprio e altrui benessere globale. Questo criterio è valido sia in genere che in particolare per il comportamento religioso.

A. Pacciolla

Bibl. A. Beck, Principi di terapia cognitiva, Roma 1984; R. Bell, La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo ad oggi, Milano 1992; J. Bowlby, L'attaccamento alla madre, Torino 1972; Id., La separazione dalla madre, Torino 1975; R. Carli, s.v., in DES II, 1701-1703; H. Ellemberger, La scoperta dell'inconscio, I, Torino 1976; V.E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, Brescia 1977; S.I. Greenberg, La nevrosi: un doloroso stile di vita, Roma 1973; V.F. Guidano - G. Liotti, Elementi di psicoterapia comportamentale, Roma 1979; H.P. Laughlin, Le nevrosi nella pratica clinica, Firenze 1967; D. Meichenbaum, Cognitive Behavior Modification, New York 1977; I.P. Pavlov, Psicopatologia e psichiatria, Roma 1969; D. Shapiro, Stili nevrotici, Roma 1969.

NEWMAN JOHN HENRY. (inizio)

I. Vita e opere. N. nasce a Londra nel febbraio 1801. Nell'autunno 1816 ha un'esperienza religiosa straordinaria in seguito alla quale aderisce a un dogma definito ed ha coscienza di essere eletto alla gloria eterna. Nel 1817 s'iscrive all'Università di Oxford e diventa fellow e tutor dell'Oriel College. Sceglie la carriera ecclesiastica, viene ordinato sacerdote anglicano, ed esercita il ministero prima nella Chiesa di San Clemente, quindi dal 1828 al 1843 nella Chiesa universitaria di St. Mary, dove si distingue per la sua predicazione. Nel 1833 fonda con alcuni amici il Movimento di Oxford di cui diviene capo ed animatore, esercitando la sua attività soprattutto per mezzo dei tracts. Nel 1839, va incontro ad una crisi religiosa, comincia a dubitare della verità della Chiesa anglicana e, dopo alcuni anni di sofferta riflessione, nel 1845 si converte al cattolicesimo. Si reca a Roma dove diventa sacerdote cattolico, entra nella Congregazione di s. Filippo Neri e, tornato in patria, erige l'oratorio di Birmingham. Nel 1851 fonda l'Università cattolica di Dublino, di cui è rettore fino al 1858. Nel 1864 risponde alle accuse di C. Kingsley contro il clero cattolico con il libro Apologia pro vita sua, per cui acquista un grande prestigio nel mondo anglosassone. Intanto, in polemica con Gladstone ( 1898), difende il Concilio Vaticano I e l'infallibilità pontificia. Nel 1879 è creato cardinale da Leone XIII. Muore l'11 Agosto 1890.

Le sue opere possono essere divise in: 1. Periodo anglicano (1801-1845): Parochial and Plain Sermons, 8 voll., prediche tenute ogni domenica nella Chiesa di St. Mary dal 1828 al 1843 nelle quali espone il dogma e la morale evangelica in una forma che esige una scelta, non solo dell'intelligenza, ma della coscienza e della vita; Sermons Preached before the University of Oxford (1826-1842), di argomento prevalentemente filosofico sul rapporto tra ragione e fede, con molti spunti di spiritualità; Tracts for the Times (1833-1841) che sono un appello alla riforma dell'individuo e della Chiesa; Lectures on the Doctrine of Justification (1838) nelle quali è esposta con ampiezza e profondità la dottrina della giustificazione e dell'inabitazione dello Spirito Santo; The Church of the Fathers (1833-1838), una rievocazione delle grandi figure dei Padri ed un invito a rivivere la loro spiritualità; An Essay on the Development of Christian Doctrine (1845), studio di carattere storico-teologico nel quale l'autore tocca molti temi di dottrina spirituale, presentati nello sfondo della storia e nello sviluppo della vita della Chiesa.

2. Periodo cattolico (1845-1890): Loss and Gain. Story of a Convert (1848), romanzo con elementi autobiografici; Discourses Addressed to Mixed Congregations (1849), discorsi di argomento religioso tenuti da N. dopo la conversione; Difficulties of Anglicans (2 voll), di cui il primo (1850) contiene una serie di conferenze con le quali N. tenta di risolvere le difficoltà ed i pregiudizi degli inglesi nei confronti della Chiesa di Roma; il secondo (1866) contiene la Letter to Pusey on His Recent Eirenicon, un trattato originale di mariologia che parla del culto di Maria alla luce della tradizione, specialmente nella dottrina dei Padri; Present Position of Catholics in England (1851), conferenze di carattere fortemente polemico in difesa della Chiesa di Roma contro i pregiudizi degli inglesi; Sermons Preached on Various Occasions (1857), tratta delle disposizioni favorevoli alla fede; Idea of University (1858), delinea il concetto di una Università cattolica; Apologia pro vita sua (1864), che presenta con oggettività la vita e la dottrina di N. ed il suo itinerario alla conversione; Verses on Various Occasions (1868), poesie composte in varie occasioni, molte di argomento religioso; An Essay in Aid of a Grammar of Assent (1870) in cui è esposto l'itinerario verso la fede che di solito non è percorso alla luce della logica; Meditations and Devotions (postumo), contiene elevazioni di carattere mistico; The Letters and Diaries (postumo in 30 voll.), presenta molti elementi di carattere spirituale.

II. L'esperienza mistica. N., sebbene vissuto nel secolo scorso, è oggi più vivo che mai, in quanto anticipò con spirito profetico alcuni dei problemi filosofici e religiosi del nostro tempo. E vivo con il suo messaggio mistico; anche se esso è tuttora dibattuto e soggetto ad interpretazioni contrastanti, è possibile tuttavia darvi una soluzione positiva, perché nella vita e nella dottrina di N. si riscontrano tutti gli elementi che costituiscono un'autentica esperienza mistica: la presenza dello Spirito Santo, l'esperienza passiva di Dio, il senso ecclesiale.

1. Lo Spirito Santo. N. a quindici anni scrisse una preghiera in cui chiedeva insistentemente a Dio il dono dello Spirito Santo (The Letters and Diaries of J.H.Newman, I, Oxford 1978, 29); negli ultimi anni della vita ne compose un'altra nella quale si rivolgeva allo Spirito Santo con queste parole: " Quando ero giovane tu mettesti nel mio cuore una speciale devozione per te " (Meditations and Devotions, London 1960, 311). E una confessione molto significativa fatta da N. nella piena maturità, mentre guarda in retrospettiva la sua vita e rileva che essa è stata vivificata dalla presenza e dall'azione dello Spirito. Egli è avanzato nella virtù, è salito di grazia in grazia, si è trasfigurato in Dio, mosso e guidato dallo Spirito: " Tu mi hai preso nella mia giovinezza e non mi lascerai più. Non per mio merito, ma con il tuo benevolo amore creasti in me le buone risoluzioni e mi riportasti a te " (Ibid., 314).

In questo testo N. allude alla sua prima conversione nell'autunno 1816, dopo lo smarrimento della fanciullezza, ed alla decisa ripresa della giovinezza nel 1826, dopo che per un certo tempo aveva accolto la tentazione del razionalismo; è nei momenti più difficili che si è sentito vicino lo Spirito come salvatore. Ma la sua sicurezza è continua perché sa e sperimenta che egli è sempre presente personalmente nella sua anima: " Sei presente in me non solo con la tua grazia, ma con la tua eterna sostanza come se, senza perdere la mia individualità, io fossi, in un certo senso, anche ora assorbito in Dio " (Ibid.). E una rivelazione di autentico valore mistico: non ci sono più la povertà e la fragilità della creatura, bensì l'esistenza arricchita e sopraelevata da una Persona divina; quasi la fusione di due vite; l'uomo immerso nella infinità di Dio.

Lo Spirito Santo è la vita dell'anima: N. sente la sua azione ininterrotta e potente, e allora vari sentimenti si alternano in lui: la riconoscenza, l'adorazione, la speranza, la gioia, ma soprattutto l'esperienza di un profondo rapporto con lo Spirito: " Io so e sento, non come oggetto di fede, ma di esperienza, che non posso avere alcun pensiero buono o compiere alcuna buona azione senza di te. Io sono salvo solo quando tu respiri in me " (Ibid.). E una resa totale alla maestà dello Spirito Santo, al suo dominio sovrano: l'esistenza ha valore soltanto se potenziata e nobilitata da lui. E importante però rilevare che N. non ha solo una conoscenza nozionistica di questa realtà, ma ne prova un sentimento vivo, un'esperienza intima, straordinaria. Da tale esperienza derivò un interesse per la teologia dello Spirito Santo, tema costante del suo studio e della sua riflessione. Ne trattò, almeno con accenni, in tutti i suoi scritti, ma in maniera vasta e profonda nel libro Lectures on Justification, concentrandosi di preferenza sul fatto della inabitazione, della presenza cioè dello Spirito nell'anima del giusto e dell'azione da lui svolta. Egli è presente come dono per eccellenza, come pegno, come gloria; giustifica, purifica, illumina, unisce a Dio, e con i suoi sette doni produce l'esperienza mistica. Notevole la posizione di N. su quest'ultimo punto, pienamente conforme all'insegnamento di s. Tommaso (Appunti di prediche, Padova 1924, 332). Egli allarga la sua visione all'azione svolta dallo Spirito nella Chiesa: è lui il rivelatore di Dio Padre, il vincolo tra il cielo e la terra, la forza dei martiri, il sostegno dei confessori, il fuoco per mezzo del quale i missionari accendono l'amore di Cristo negli uomini. N. presenta quasi una sintesi della dottrina sull'azione dello Spirito Santo in un testo in cui stabilisce un parallelo tra Cristo ed i cristiani: come egli fu veramente presente in Gesù e lo guidò sempre nella vita, così è presente nei cristiani dal giorno del battesimo fino all'incontro finale con Dio (Parochial and Plain Sermons, V, London 1870, 139).

2. L'esperienza di Dio. Quando N. all'età di quindici anni, pungolato dalla coscienza e mosso dallo Spirito Santo, ritrovò Dio che aveva perduto, espresse la sua nuova situazione con una formula incisiva: " ...Mi ancorai al pensiero di due, e due soli, esseri assoluti, di un'intrinseca e luminosa evidenza: me stesso e il mio Creatore " (Apologia, Roma 1956, 21). Essa esprime una forte esperienza religiosa, che resterà fondamentale per tutta la vita, che gli farà preferire la santità alla pace, gli farà sentire fino all'evidenza le realtà soprannaturali. E l'affermazione che l'uomo non si realizza se non ponendosi di fronte al suo Creatore, realtà unica insieme alla nostra che rende marginali ed esteriori tutte le altre. Dal contatto immediato ed ininterrotto con Dio scaturì in N. la certezza, superiore a qualunque altra, della sua esistenza: " Di tutti gli articoli di fede, l'esistenza di Dio è, a mio giudizio, quello che presenta maggiori difficoltà; eppure è quello che con maggior forza si impone al nostro spirito " (Ibid., 266). Dio vive nella coscienza come un essere personale che tutto vede e tutto giudica; è qui il segreto della sconvolgente spiritualità di N.: egli che ne sentì la forza e l'importanza nel suo itinerario personale, ne fece il caposaldo della sua filosofia religiosa. E dalla coscienza che comincia, si sviluppa e termina l'ascesa dell'uomo verso Dio. La coscienza, questo senso spirituale, è la luce interiore, la voce che parla continuamente di Dio; intesa come senso del dovere, essa esercita un influsso intimo e costante sui sentimenti e porta alla riverenza ed al pentimento, alla speranza ed al timore, al rimorso ed alla gioia; è sempre emozionale ed implica l'affermazione di un essere personale e trascendente verso cui è diretta. Dal suo ascolto fedele, dall'ubbidienza ai suoi dettami sorge negli uomini l'autentica esperienza di Dio; allora essi " saranno portati a pensare alla sua presenza come a quella di una persona vivente; saranno capaci di conversare con lui con la stessa dirittura e semplicità, con la stessa confidenza ed intimità, che, proporzionalmente, noi usiamo con i nostri amici " (Grammar of Assent, New York 1955, 107). L'esperienza che N. tratteggia è talmente intensa che per esprimerla fa ricorso ai termini più significativi: assenso reale, sentimento di Dio, percezione, intuizione, visione di Dio. Dio viene afferrato con presa immediata, come una realtà e non più come un'idea che rientra in un ragionamento; è intuito come in una visione oscura, ma reale, viene sentito come una persona da cui è impossibile staccarsi. In N. c'è sempre il passaggio dall'esperienza personale alla visione generale: uomo estremamente sincero diceva e scriveva ciò che aveva provato. In una forte meditazione egli parlò del suo rapporto intenso con Dio, divenuto forza portante della sua vita, e parte della sua struttura razionale: " Intorno all'idea del tuo essere, Signore, come a chiave di volta, si è costruita la vita del mio spirito; senza di te tutto rovinerebbe in frantumi " (Meditations and Devotions, 338). L'esperienza di Dio si era talmente connaturata in lui da divenire elemento essenziale del suo essere, del suo intelletto, del suo cuore; diventò necessità assoluta, condizione di vita o di morte, di saggezza o di pazzia, di felicità o di disperazione (Ibid., 338). N. sente Dio come il vero dominatore della sua persona, lo sente troppo vicino per permettersi parole o discorsi; più che ragionare egli si fissa in lui che vede ed ama: " Questa è la mia porzione ora e sempre, o Signore, guardare te, contemplare te, fissare te " (Ibid., 244).

Tra i vari attributi di Dio ce ne fu uno che lo attirò maggiormente e lo sostenne con forza straordinaria per tutta la vita: la provvidenza, la quale più che un articolo di fede divenne per lui un fatto di esperienza (Ibid., 334). N. è consapevole del suo stato mistico, ma è anche consapevole che esso non è una sua conquista, ma un dono dall'alto; preso tra questi due poli, tra il valore della contemplazione e l'incapacità dello sforzo umano per raggiungerla, si protende verso Dio con la preghiera insistente. Il sentimento degli incontri del passato ha lasciato in lui una dolcezza ineffabile ed un'acuta nostalgia, ed egli prega che si rinnovino ancora: " Signore, rendimi capace di credere come se vedessi, fa' che io ti tenga sempre dinanzi agli occhi, come se tu fossi corporalmente e sensibilmente presente. Fa' che io sia sempre in comunione con te, mio nascosto e vivente Dio. Tu sei nel più profondo del mio cuore (in my innermost heart) " (Ibid., 276). Notevole nel testo l'espressione " tu sei nel profondo del mio cuore " che richiama il linguaggio dei mistici per i quali l'incontro con Dio avviene nel fundus animae. La difficoltà della contemplazione, oltre che dalla fragilità umana, deriva dalla trascendenza di Dio; ma essa diminuisce a misura dell'elevazione dell'uomo e della sua trasformazione in lui; è questa la grazia che N. implora ardentemente: " Insegnami, o Dio, a contemplarti in maniera da divenire come te, ed amarti con semplicità e sincerità come tu hai amato me. Il mio cuore possa fondersi e conformarsi al tuo cuore " (Ibid., 241).

3. Sentire Ecclesiam. Per N. l'esperienza mistica si realizza nella Chiesa: è in questa comunità vivente, umana e divina, che egli sente e percepisce Dio. Raramente la vita spirituale di un uomo fu marcata da un senso mistico della Chiesa come quella di N.: per lui essa era tutto, rappresentava il valore supremo, l'oggetto delle sue aspirazioni e ricerche, della sua fede e del suo amore, non meno che delle avanzate penetranti del suo spirito. Sentiva la Chiesa con la stessa intensità con cui sentiva Cristo, la contemplava unita strettamente e necessariamente a lui, come il "suo Corpo mistico". Ecco la grande realtà nella quale N. fu immerso, tanto che fuori di essa non si può concepire né spiegare. E ne fu un membro attivissimo, animato dallo Spirito, unito indissolubilmente al capo, Cristo, in comunione con le altre membra. Si impoverirebbe perciò la sua esperienza mistica se si limitasse ad una prospettiva individuale, fuori del grande orizzonte ecclesiale. Dio non è presente soltanto nell'anima, ma è, nello stesso tempo, presente nella Chiesa, nella storia, nel singolo fedele per guidare il loro destino. Anzi egli si può trovare in pienezza solo nella Chiesa " l'unico santo e cattolico corpo nel quale soggiorna la presenza di Dio" (Parochial Sermons VI, 172). Nessuno forse più di N. ha visto con lucidità più viva ed ha sofferto con passione più cocente la necessità della Chiesa per trovare Dio; è il suo dramma: " O la Chiesa cattolica o l'ateismo " (Apologia, 271). Dio si trova per mezzo di Cristo, capo e ragione di essere della Chiesa, che anima e santifica con il suo essere e con la sua azione: da questo fatto nasce l'attaccamento alla Chiesa (Sermons of the Subjects of the Day, London 1873, 354). In questa prospettiva essa si presenta come la rivelazione di Dio, come il suo rappresentante in terra. Così la vide N., specialmente nei momenti decisivi della vita come all'inizio del Movimento di Oxford, quando scrisse: "Noi siamo responsabili soltanto dinanzi a Dio ed alla Chiesa"; "Noi seguiremo la nostra via secondo la luce data da Dio e dalla Chiesa". 1

Risalta da questi due testi il suo pensiero mistico: egli considera Dio e la Chiesa sullo stesso piano, forniti della stessa sapienza e della stessa autorità; sono inscindibili, sembra che si identifichino. In questa luce egli risolse il problema cruciale della Chiesa visibile ed invisibile, carismatica ed istituzionale. Dio è impersonato dai vescovi che la governano in suo nome; verità questa accettata e vissuta profondamente da N., che l'apprese da Ignazio di Antiochia: questi, infatti, parlando dei casi di disubbidienza all'autorità ecclesiastica scrive: " Non si inganna quel vescovo che si vede, ma si ha a che fare con il vescovo invisibile, quindi la questione non è con la carne, ma con Dio che conosce i segreti dei cuori ". E N. afferma: " Desideravo mettere in pratica questo principio alla lettera e posso dire con tutta sicurezza di non averlo mai trasgredito coscientemente. Amavo agire con la sensazione di stare sotto lo sguardo del mio vescovo, come se fosse lo sguardo di Dio " (Apologia, 71). Questo sentimento, autenticamente mistico, fu sempre vivo in N. sia nel periodo anglicano che in quello cattolico. Quando, perciò, si convertì a Roma e scrisse al vicario apostolico, Wiseman, per annunziargli il fatto " non trovò nulla di meglio da dirgli che avrebbe ubbidito al Papa come aveva ubbidito al vescovo della Chiesa anglicana " (Ibid., 72). E vero che la conversione segnò la fine della sua ricerca inquieta, ma segnò anche l'inizio delle sue sofferenze più acute, in quanto egli fu per lungo tempo incompreso. Ma non si perse di coraggio perché sapeva qual è il destino che Dio riserva ai santi; quindi scriveva: " Io venero solo per amore di Dio la sua Chiesa, ed accolgo i suoi insegnamenti come fossero gli insegnamenti di Dio " (Verses on Various Occasions, 327). Questa convinzione non lo lasciò mai e l'accompagnò per tutto il resto della vita. Ma egli conosceva la forza della tentazione; perciò si rivolgeva a Dio con la preghiera per ottenere la grazia di " sentirlo sempre nella Chiesa ": " Non permettere mai che io, anche per un istante, dimentichi o Signore, che tu hai stabilito il tuo regno sulla terra, che la Chiesa è la tua opera, la tua istituzione, il tuo strumento, che noi siamo sotto la tua legge, sotto i tuoi occhi; che quando la Chiesa parla, sei tu che parli " (Meditations and Devotions, 291).

Note: 1 A. Mozley, Letters and Corrispondence of J.H. Newman, London 1891, 488-490.

Bibl. Biografie: L. Bouyer, Newman. Sa vie. Sa spiritualitè, Paris 1952; J. Honoré, Itinéraire spirituel de Newman, Paris 1964; I. Ker, J.H. Newman, A Biography, Oxford 1990; M. Trevor, Newman, 2 voll., London 1962; W. Ward, The Life of John Henry Cardinal Newman, 2 voll, London 1912. Studi: Aa.Vv., J.H. Newman Theologian and Cardinal, Roma 1981; Aa.Vv., Newman. Il mistero della Chiesa, Roma 1984; H. Bremond, Newman. Psychologie de la foi, Paris 1905; G. von Brockhusen, s.v., in WMy, 376-377; P. Chiminelli, J.H. Newman, Modena 1963; L. Cognet, Newman ou la recherche de la vérité, Paris 1967; C.S. Dessain, Newman's Spiritual Themes, Dublin 1977; H. Flanagan, Newman. Faith and Believer, London 1946; C. Germinario, Coscienza e autorità nell'esperienza di J.H. Newman, Bari 1981; T. Gornall, s.v., in DSAM XI, 163-181; L. Govaert, Newmans mariologie und sein persönlicher Werdegang, München 1973; A. Janssens, Newman. Introduzione al suo spirito e alla sua opera, Roma 1945; P. Masson, Newman et l'Esprit Saint, Rome 1978; M. Nédoncelle, La philosophie religieuse de Newman, Strasbourg 1946; L. Obertello, Conoscenza e persona nel pensiero di J.H. Newman, Trieste 1964; G. Regina, Il cardinal Newman nei suoi scritti, Roma 1956; J.G. Saint-Arnaud, Newman et l'incroyance, Montréal 1972; J. Stern, Bible et tradition selon Newman, Paris 1967; N. Theis, Newman in unserer Zeit, Nürnberg 1974; G. Velocci, Newman mistico, Roma 1964; Id., Newman al Concilio, Roma 1966; Id., Newman. Il problema della conoscenza, Roma 1985; Id., Newman. Gesù, Milano 1993; Id., Newman. Sulla preghiera, Milano 1995. E. Zanin, La Chiesa nell'esperienza religiosa di J.H. Newman, Udine 1980.

G. Velocci

NICOLA DA CUSA. (inizio)

I. Vita e opere. N., in ted. Nikolaus Chrypffs o Krebs von Cues, nasce a Cues, Treviri, nel 1400 o 1401. Frequenta le Università di Heidelberg (1416), di Padova (1417-1423) e di Colonia (1425), ove studia diritto, filosofia e teologia. Nel 1430 viene ordinato sacerdote. Partecipa al Concilio di Basilea sostenendo la causa della supremazia del concilio sul Papa, ma in seguito, preoccupato per l'unità della Chiesa, difende i diritti del Papa. Nel 1437 è in missione a Costantinopoli ove contribuisce alla provvisoria riunificazione della Chiesa greca con quella romana. Conduce, poi, una valida azione presso i principi tedeschi in favore di Eugenio IV ( 1447) e contro l'antipapa Felice V ( 1451). Per i suoi meriti, nel 1448, viene creato cardinale. Niccolò V ( 1455) lo invia nella diocesi di Bressanone, ma qui N. entra in conflitto con il conte del Tirolo perciò il papa Pio II ( 1464) lo richiama a Roma come vicario generale e governatore della città (1459). Muore a Todi (PG) nel 1464, mentre è in viaggio verso Ancona per raggiungere il papa Piccolomini che lì tenta di organizzare la crociata per la riconquista di Costantinopoli.

N. fu tra i grandi ecclesiastici del suo tempo forse il più dolorosamente consapevole dei mali della Chiesa. Lottò contro le forme più aberranti del culto delle immagini e contro la corruzione del clero.

Fu filosofo (erede dell'occamismo) e fisico. Il mondo, "Dio contratto", è infinito come Dio. In questa prospettiva, N. anticipa la nuova cosmologia: la terra non è il centro dell'universo; è presumibile che esistano altri mondi abitati - ogni moto è relativo a un sistema di riferimento.

Tra le sue numerosissime opere ricordiamo solo quelle più esplicitamente di ordine spirituale: De docta ignorantia (1440); la trilogia apparsa tra il 1444-1445: De Deo abscondito, De quaerendo Deum e De filiatione Dei; De visione Dei (1453); De Non Aliud (1461-1462); De apice theoriae (1464).

II. Dottrina mistica. N. s'inserisce nella tradizione neoplatonica, cristianizzata da Dionigi Areopagita e rifiuta la separazione tra teologia e mistica. Si aggancia alla tradizione dei mistici renani, soprattutto di Eckhart, ma si allontana da loro seguendo la tendenza antispeculativa, defininendo la contemplazione nel suo carattere affettivo. L'uomo non può raggiungere la visione di Dio in questo mondo: nel De docta ignorantia afferma che la più grande sapienza dell'uomo consiste nel prendere coscienza della propria incapacità a cogliere il senso pieno della realtà. Tale incapacità deriva dall'insormontabile distanza che separa il particolare dall'assoluto. Egli segue il concetto di assoluto già espresso da Proclo ( 485) ed Eriugena, come quello del Non-aliud, che è l'unica definizione possibile per il Deus absconditus. Dio è l'infinito assoluto e l'unico che contiene tutto ciò che è e nel quale tutti gli opposti coesistono in un'unità incomprensibile al nostro intelletto (coincidentia oppositorum), perché Dio è per noi assolutamente inconoscibile. Secondo N., l'uomo non può accostarsi a Dio per via di concetti, ma può farlo grazie all'intuizione, arrivando al grado di intuizione mistica, che sola può porre fine alla dotta ignoranza. La conoscenza di Dio è, infatti, frutto solo di illuminazione e di grazia perché " come da Dio dipende l'essere, così ancora da Dio dipende l'essere conosciuto " (De quaerendo Deum, II, 36). Ma, " Dio vuole essere cercato e a quanti lo cercano vuole anche fare dono di quel lume senza il quale è impossibile intraprendere la ricerca. Dio vuole essere cercato ed afferrato, perché vuole apparire a coloro che lo cercano e manifestare se stesso " (Ibid., III, 39). Nessun'opera può garantire all'uomo di raggiungere Dio, ma solo l'amore per lui e per il prossimo.

Bibl. Opere: Opere religiose, a cura di P. Gaia, Torino 1971; La dotta ignoranza, a cura di G. Santinello, Milano 1988; Il Dio nascosto, a cura di L. Mannarino, Bari 1995. Studi: G. von Bredow, Lernen des Nichtwissens: Erfahrung unbegreiflicher Wahrheit, in Geist und Leben, 62 (1989), 165-175; M. de Gandillac, s.v., in DSAM XI, 262-270; J. Hopkins, Nicholas of Cusa's Dialectical Mysticism, Minneapolis 1985; K. Jaspers, Nikolaus von Kues, Münster 1987; G. Morra, Cusano: un'antropologia cristocentrica, in Ethica, 5 (1966), 53-65; E. Vansteenberghe, Autour de la docte ignorance, Münster 1915; V. Zühlsdorff, s.v., in WMy, 381-383.

M.R. Del Genio

NICOLA DA FLUE (santo). (inizio)

I. Cenni biografici. Nasce nel 1417 nel Flüeli presso Sachseln (Svizzera) da una famiglia di agricoltori. Nella prima gioventù N. conosce l'eremita Mattia di Bolsheim, allora priore del convento benedettino di Engelberg, il quale gli parla degli " Amici di Dio ", un movimento religioso particolarmente attivo in Alsazia. Sposa Dorotea Wyss e diviene padre di dieci figli. Tra il 1433 e il 1460, N. prende parte, come ufficiale, a varie campagne militari, adoperandosi per " un trattamento umano del nemico vinto, per risparmiare chiese e conventi, per proteggere donne e bambini ". Intanto affronta dure lotte interiori perché avverte forte la chiamata divina ad una vita dedicata solo a Dio. Su consiglio del suo direttore spirituale e con il consenso della moglie e dei figli, il 17 ottobre 1467 N. parte per l'Alsazia. Ma da Liestal (presso Basilea) ritorna in patria. Per un breve periodo di tempo, vive come eremita in un burrone solitario nel Ronft (vicino alla sua famiglia), dedito alla preghiera e alla penitenza. Diventa il consigliere di anime semplici e di persone di alta reputazione (per esempio Bernardino, ambasciatore imperiale e Ludovico il Moro di Milano). Famosa la sua opera di pacificazione nella Dieta di Stans (1461) che riportò la concordia tra i cantoni in guerra. Ciò lo fa definire pater patriae. Per diciannove anni e mezzo vive in astinenza totale, solo con la s. Comunione. Muore il 21 marzo 1487. E beatificato nel 1649 e canonizzato nel 1947.

II. Dottrina mistica. Tutta la vita di N. è una continua ricerca mistica. Egli è un mistico laico ed illetterato. Malgrado ciò, il suo pensiero e la sua meditazione si concetrano sul contenuto essenziale della fede: la Trinità, la passione e l'Eucaristia. La sua mistica è influenzata dalla mistica renana, soprattutto da quella di Susone.

La sua vita di preghiera è scandita sul modello della tradizione monastica. Evidente è l'influsso della spiritualità dei Padri del deserto. La sua preghiera, ripetutamente recitata: " Mio Signore e mio Dio ", è imbevuta del linguaggio di E. Susone. Di grande rilievo è, poi, la sua rappresentazione della Trinità: una ruota con tre raggi che si alternano due volte. Egli è favorito da molte visioni, sia da giovane e da padre di famiglia che da eremita.

N. è considerato il simbolo del legame tra mistica e politica: fu definito costruttore di pace fin dalla sua prima mediazione nell'assemblea decisiva della Dieta di Stans del 1461. La sua fama di santità, già molto avvertita durante la sua vita, è continuata nei secoli successivi e nella sua esperienza spirituale si sono ritrovate le persone più diverse da H. Zwingli ( 1531) e H. Bullinger ( 1575) nel sec. XVI a K. Barth e W. Nigge nel sec. XX, tanto da farlo definire " santo ecumenico ". Psicologi hanno analizzato i suoi sogni e le sue visioni (M.-L. von Franz). Artisti importanti si sono ispirati alla sua figura.

Bibl. Ed. R. Durrer, Bruder Klaus. Die ältesten Quellen über den seligen, sein Leben und seinen Einfluss, 2 voll., Sarnen 1917-1921. Studi: P. Baud, Saint Nicolas de Flüe, Paris 1993; M.L. von Franz, Visionen des Nikolaus von Flüe, Zürich 1980; R. Gröbli, Leben und Leher des Bruder Klaus, Zurich 1990; C. Journet, Nicola di Flüe. Il politico della pace, Roma 19792; P.M. Krieg, s.v., in BS IX, 913-917; P. Ochsenbein, s.v., in WMy, 381; W. Oehl, Bruder Klaus und die dt. Mystik, in Zeitschrift für Schweizerische Kirchengeschichte, 11 (1917), 161-174, 241-254; D. Planzer, Zur Mystik des sel. Bruder Klaus, in Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 27 (1980), 277-324; H. Stirnimann, Niklaus von Flüe, Fribourg 1981; C. Trezzini, s.v., in EC VIII, 1846-1847.

H. Stirnimann

NILO DI ROSSANO (santo). (inizio)

I. Vita e opere. N. (Neilos) il Giovane è noto anche come Nilo di Rossano. Santo della Chiesa di tradizione bizantina (910 ca.-1004 o 1005), che celebra la sua festa il 26 settembre, nasce a Rossano, da nobile famiglia italo-greca; viene poi battezzato con il nome di Nicola. Ciò che conosciamo di lui, dalla Vita attribuita a s. Bartolomeo il Giovane ( 1055 ca.), discepolo e terzo igumeno del monastero di Grottaferrata che completa e di cui si considera co-fondatore, ha caratteri agiografici stereotipici. Eppure, dal punto di vista filologico e compositivo, questa vita è considerata un capolavoro agiografico dell'Italia italo-greca. N. sembra non essersi sposato. Convive con una donna e ne ha una bambina. A trent'anni circa sente la chiamata a ritirarsi dal mondo e si fa monaco in un monastero della regione montuosa della " nuova Tebaide ": il Mercurion, tra la Lucania e la Calabria, dove ha s. Fantino ( 1000 ca.) come padre spirituale. Più tardi, per sottrarsi alla vita pubblica (è stato decurione) e salvarsi dalle incursioni saracene che la vicinanza della Sicilia musulmana rende frequenti, si rifugia nella nativa Rossano. Fonda il monastero di Sant'Adriano, presso San Demetrio Corone, rimanendovi per venticinque anni. Cambia il nome in Nilo, per devozione a s. Nilo Sinaita ( 430 ca.). Eremita e cenobita, rifiuta di essere consacrato arcivescovo di Rossano. Seguono altri spostamenti (Montecassino, Vallelucio, Serperi, vicino Gaeta). Scrive al conterraneo Giovanni Filagathos (l'antipapa Giovanni XVI) ( 1001) rimproverandogli l'ambizione e intercede per lui, ma invano, presso l'imperatore Ottone III ( 1002). Ormai prossimo a morire, fonda il monastero di Grottaferrata (Cryptaferrata) presso il Monumentum Ferratum nella zona del Tuscolo, vicino Roma. Muore nel monastero greco di Sant'Agata, nell'attuale contrada La Molara sulla via Anagnina alle falde del Tuscolo.

N. è un copista, erudito, specialmente in letteratura greca e latina, e innografo. Fonda la scuola innografica criptense, componendo uffici liturgici e bellissime poesie, fra cui l'ufficiatura criptense della festa di s. Benedetto, e un kontakion di s. Nilo Sinaita. Crea pure un nuovo tipo di scrittura italo-greca, chiamata tachigrafia greca sillabica niliana o di Grottaferrata.

II. Esperienza spirituale. Dalla Vita di N. ricaviamo preziose informazioni sulla spiritualità monastica dell'Italia meridionale bizantina. La spiritualità personale di N. fa parte di quella italo-greca del periodo, il cui centro è la liturgia bizantina, nella variante italo-greca. Ma la decisione di N. di partire per Montecassino e per l'Italia di rito latino, trapianta l'ideale italo-greco di oikeiosis (appartenza linguistica, culturale e spirituale all'Impero bizantino) e di xenia (essere stranieripellegrini, senza radici, in cerca di Dio) nel cuore della Chiesa latina. Morto prima della separazione tra Oriente e Occidente, N. ha dato un'impronta particolare alla vita di preghiera. Questa si sviluppa nello sforzo ascetico, sotto la guida del padre spirituale. Il noviziato dura solo quaranta giorni. L'importanza di Grottaferrata, testimone di un monachesimo di rito greco già comune nelle forme esteriori a Oriente e a Occidente, non si deve sottovalutare. Non solo perché emblematica come correttivo all'uso sfortunato del potere dello Stato e della Chiesa in tempi difficili, ma anche per il suo valore ecumenico: basti pensare che una delle prime iniziative di Paolo VI, appena eletto papa, fu quella di recarsi a Grottaferrata (18.8.1963). La liturgia di Grottaferrata rispecchia influssi studiti, unico posto al mondo a preservare questa forma di vita monastica urbana.

Bibl. Opere: PG 120,15-166; S. Garsisi, I manoscritti autografi di S.N. Juniore, in Oriens Christianus, 4 (1905), 3-67. Studi: G.M. Croce, La Badia greca di Grottaferrata e la rivista " Roma e l'Oriente ", 2 voll., Città del Vaticano 1990; G. Giovanelli, s.v., in BS IX, 995-1008; Id., S. Nilo di Rossano, Fondatore di Grottaferrata, Grottaferrata (RM) 1966; Id., Vios kai politeia tou hosiou patros hemon Neilou tou Neou, Thessaloniki 1972; tr. it., 1976; D.P. Hester, Monasticism and Spirituality of the Italo-Greeks, Thessaloniki 1992; T. Minisci, s.v., in EC VIII, 1884; Id., Riflessi studitani nel monachesimo italo-greco, Il monachesimo orientale, Roma 1958, 215-233; I.G. Passarelli, Il monachesimo italo-greco, in Aa.Vv., Il monachesimo nel primo millennio, Atti del Convegno, Roma-Casamari 1989, 185-194; A. Pertusi, La spiritualité gréco-byzantine en Italie méridionale, in DSAM VII2, 2193-2206.

E.G. Farrugia

NOTTE OSCURA. (inizio)

Premessa. Si dà il nome di n. ad un'esperienza spirituale profonda e prolungata, caratterizzata dalla sensazione di aridità, oscurità, vuoto, vissuta e interpretata come assenza ed abbandono di Dio. Forma parte dell'itinerario mistico. Se ne conosce la manifestazione grazie alle confessioni autobiografiche e agli studi dottrinali.1 La Sacra Scrittura e la storia della spiritualità ce ne offrono moltissimi esempi. Ci sono solidi fondamenti dottrinali in alcuni autori dell'antica tradizione: la nube in s. Gregorio di Nissa, la tenebra in Dionigi Areopagita.2 Giovanni della Croce tratta il tema in tutti i suoi scritti, in maniera sistematica nel poema e libro della Notte oscura. Analizza e organizza con originalità i vari piani: simbolico, mistico, teologico, pedagogico. La n. racchiude oscurità, inattività, pericoli, purificazione e illuminazione. Queste caratteristiche possono essere una traccia per l'esposizione.

I. Caratterizzazione dell'esperienza. Oscurità, aridità, vuoto. Più che elementi particolari dell'una o dell'altra potenza sono sentimenti profondi e generali che coinvolgono la persona sul piano sensibile, personale e teologale. Così Giovanni della Croce descrive l'opera di Dio nell'esperienza del soggetto: " Dio denuda le loro potenze, le affezioni e i sentimenti, sia spirituali che sensibili, esterni e interni, lasciando l'intelletto al buio, la volontà all'asciutto, vuota la memoria e gli affetti dell'anima, insomma afflizione, amarezza ed angustia, privando la medesima del sapore dei beni spirituali che prima gustava ".3 Però, in questo caso, il soggetto affetto non si limita a " sentire " aridità, oscurità, tormento; miseria peccato, impotenza, " pensa " e interpreta che Dio è adirato, lo castiga e abbandona con ragione, " crede di avere in sé tanto male da meritare di essere aborrito e scacciato per sempre da Dio con molta ragione ".4 Totale perdita di appoggio " come colui che sta nell'aria e non ha dove appoggiarsi ", senza presente, passato né futuro. In una situazione così complessa e confusa, è necessario discernere se si tratta di notte, di tiepidezza o di depressione. Tre segni insieme offrono certa garanzia del carattere teologale o mistico dell'esperienza: a. non c'è gusto né consolazione nelle cose di Dio né nelle creature; b. non si può meditare né discorrere con gusto come prima si faceva con gusto e profitto; c. nasce il ricordo di Dio e la sollecitudine penosa di servirlo, pensando di non far nulla. Quest'ultimo segno di carattere positivo è decisivo per distinguere la n. dalla tiepidezza o dalla semplice malinconia.5

II. Opera di Dio. Ciò che al soggetto sembra abbandono e magari castigo è, in realtà, un gesto manifesto dell'amore e del potere divino: " Dio ammaestra l'anima e la istruisce nella perfezione dell'amore senza che essa faccia alcunché né intenda come ".6 La illumina e purifica in forma passiva per mezzo della " contemplazione infusa ", luce divina che illumina e abbaglia, irrita per la sua immensa chiarezza e per l'indisposizione dell'anima; la fa vivere e agire con nuovi criteri e motivi che non comprende. Qualifica come " passivo " tanto l'intervento di Dio come l'atteggiamento del soggetto. E fondamentale il riferimento teologale: prossimità ombrosa, assenza desolante di Dio, che con la sua santità e infinitezza impone modalità violente e dolorose al rapporto con l'uomo.

III. Pazienza e collaborazione. Parliamo di notte " passiva " in ragione della grazia speciale, all'origine della sofferenza e all'iniziativa divina in questa trasformazione. Il termine risulta equivoco giacché può suggerire dimenticanza, inazione, apatia. In questo caso, implica partecipazione libera e docile da parte dell'uomo sottomesso a questa prova. La funzione purificatrice e unitiva non si ottiene per la semplice sensazione di oscurità, aridità, vuoto spogliamento, tormento. La n. passiva richiede maggiore fortezza ed audacia della n. attiva giacché mantiene la fedeltà ad un progetto sconosciuto e per motivi occulti. " Soffrire con pazienza e fedeltà ".7 è la consegna per vivere questa situazione. Le tre virtù " fede oscura e viva, speranza certa e carità perfetta " sono l'unico appoggio teologale e psicologico in questo cammino di oscurità, aridità e vuoto. Non c'è altra luce né guida: " L'anima deve camminare nelle tenebre e angustie interiori, senza ricevere conforto da nessuno: non dal suo intelletto che è privo di luce, non dall'alto perché il cielo le pare chiuso e Dio nascosto, non dagli uomini, perché i suoi maestri non possono aiutarla. Ma tutto soffre con costanza, passando per quei travagli senza stancarsi e mancare all'Amato ".8

IV. Purificazione. La funzione purificatrice caratterizza la n. nelle fonti dottrinali e nelle testimonianze esperienziali. Si comprende in tre piani di profondità: 1. teologale: si purificano le immagini e le idee che erano state formate da Dio. Questi rivela con fatti il suo essere autentico amoroso, infinito, potente, gratuito. Qui l'uomo si disvela e si scopre nella sua condizione di creatura fragile, peccatrice, redenta: esperienza simultanea di Dio e di se stessi; 2. morale: si dirige direttamente alle radici del male e del vizio, oltrepassando le nozioni convenzionali di peccato e di colpa. Non basta ripetere confessioni sacramentali. C'è bisogno di purificare e trasformare il modo di essere, di pensare e di amare anche in cose e attività che non implichino coscienza di peccato; 3. psicologico: raggiungere anche il piano psicologico delle potenze, i sensi, la mente, le schiavitù che bloccano la libertà.

V. Forme e gradi di realizzazione. Nell'unità e nella continuità del suo sviluppo la n. presenta varietà di: a. forme a seconda delle vocazioni, della grazia, del temperamento e delle circostanze di vita; b. gradi di intensità del senso e dello spirito; c. ritmi a seconda della disponibilità della persona. " N. passiva del senso " fa riferimento ai primi sintomi di aridità, di difficoltà nell'esercizio spirituale. " Senso " è l'attualizzazione di tutta la persona ad un livello ancora superficiale. Corregge qualche vizio e deformazione senza trasformare la persona: " La notte del senso può e deve chiamarsi una certa riforma e un raffreddamento degli appetiti, piuttosto che una purificazione ".9 La purificazione sensitiva è comune tra persone spirituali. La " n. passiva dello spirito " è la n. per eccellenza e ad essa fanno riferimento le testimonianze più citate della vita mistica.10 In questa il nucleo più sacro e vitale della fede divina e della vita umana perde senso e solidità, diventa astratto, vuoto, inefficace: la preghiera e la carità, la sofferenza e la pazienza, il lavoro e la solitudine, la parola biblica e i consigli umani. I due nuclei della crisi, abbandono di Dio e nulla dell'uomo, raggiungono livelli altissimi. Dio, duro e " crudele ", abbandona la sua creatura nella morte e nell'abisso del nulla. Il vuoto tocca il fondo: la vita è senza senso e pesante, c'è la vacuità di persone e cose, di progetti e speranze. " Come oppressa da un peso tenebroso e immenso, talmente agonizza che preferirebbe la morte come sollievo e partito migliore ".11 Il terribile peso e vuoto interiore è originato e accompagnato, talvolta, da situazioni esterne penose: tribolazioni, tenebre, fallimenti, persecuzioni, tentazioni... " Contemplazione infusa " in questo contesto non indica necessariamente preghiera mistica, ma esperienza teologale di fede e amore intenso e oscuro, capace di assumere in chiave divina le situazioni più enigmatiche dell'esistenza umana, personale e collettiva.

VI. Modelli e realizzazioni. Nella presentazione generale ci si è limitati a sottolineare solo alcuni punti centrali di convergenza. La vita concreta offre varietà di forme, secondo le persone e le vocazioni: preghiera, apostolato, convivenza, malattie, avversità, ecc... Gesù Cristo è la realizzazione più piena e il modo principale nella consegna incondizionata all'amore di Dio e alla sua missione, specialmente nell'annientamento totale della croce.12 I personaggi mistici preferiti dai mistici sono alcune figure dell'AT che vivono l'esperienza e lasciano confessioni autobiografiche: Giobbe, Geremia, Giona, il salmista. Tra le figure moderne che hanno vissuto e raccontato l'esperienza si citano: Maria dell'Incarnazione (nell'apostolato), s. Paolo della Croce (nel " nudo patire "); s. Teresa di Lisieux (prova della fede).13

VII. N. collettiva. Quella che originariamente si è considerata esperienza religiosa personale riceve attualmente l'ampliamento in due direzioni: n. collettiva e n. culturale.14

Si può considerare suggestiva o abusiva secondo i punti di vista. L'" ampliamento " è legittimo quando si verificano sostanzialmente queste condizioni: carattere religioso, passività dell'esperienza, risposta teologale. Questi elementi possono darsi in maniera anche molto semplice, esistenziale e situata nei fatti della storia. Il carattere comunitario si applica in primo luogo a situazioni ed esperienze della Chiesa o di gruppi rilevanti di essa. Il periodo di oscurità e di tensione che si vive in questa seconda metà del sec. XX si potrebbe qualificare n. collettiva. Situazione di cambiamento profondo, rapido e sconcertante, aggravato a causa della cultura secolarizzante che oscura i contenuti e le motivazioni della fede, della carità e della speranza. Influenzata a livello incoscio da una cultura atea, vive Teresa di Lisieux la sua n. della fede con la sensazione della irrealtà di tutto questo mondo religioso che ha riempito la sua vita. Ella vive, in maniera intensa e personalizzata, la " n. collettiva " di tanti contemporanei.15 Recentemente si è esteso l'uso del simbolo n. a situazioni sociali o culturali, cambi radicali ed enigmatici che interessano l'umanità: la n. della guerra senza senso, della ribellione, della liberazione, del progresso tecnico che defrauda, dell'emigrazione di massa, dello stress infruttuoso e dell'impotenza dinanzi al male.16 In questo impiego c'è da evitare il pericolo di una " democratizzazione " della n., riducendola a semplice sofferenza o frustrazione, soffrendola con rabbia o con rassegnazione, come semplice disgrazia, senza profondità religiosa, impegno di conversione, né senso di trascendenza. D'altra parte, questa applicazione spontanea e suggestiva può essere illuminante ed anche piena di speranza per tante persone che cercano Dio nella fede personalizzata o con immagini di trascendenza in situazioni di vita "che non si possono spiegare".

Note: 1 A. Huerga, Il lungo cammino della notte. Le purificazioni mistiche, in La Mistica II, 219-251; 2 J. Hausherr, Les Orientaux connaissent-ils les " nuits " de saint Jean de la Croix?, in OCP 12 (1946), 5-46. Gli orientali conoscono e praticano tanto la dottrina come la pratica e l'esperienza spirituale; 3 Notte oscura II, 3,3; 4 Ibid. II, 7,7; 5 Cf Ibid. II, 9. La malinconia, la depressione e altre anomalie psichiche possono accompagnare la notte spirituale, senza invalidarla. Cf P. Laigne-Lavastine, Concomitance des états pathologiques et des "trois signes", in ÉtCarm 22 (1937)2, 154-162, con altri studi simili nello stesso volume; 6 Notte oscura, II, 5,1; 7 Fiamma viva d'amore 2, 28; 8 Notte oscura, II, 21,5; 9 Ibid. II, 3,1; 10 E. Underhill presenta alcune delle descrizioni più intense nel suo famoso libro Mysticism, II parte, c. 9., New York 1974. Alcune esperienze più recenti si trovano in Bruno de J.M., Témoignages de l'expérience mystique nocturne, in ÉtCarm 22 (1937)2, 237-301; 11 Notte oscura II, 5,6; 12 Cf Salita del Monte Carmelo II, 7; 13 E. Ott, Die dunkle Nacht der Seele. Depression? Untersuchungen zur geistlichen Dimension der Schwermut, Elztal-Dallau 1981. Ha studiato Giobbe, Maria dell'Incarnazione, Martin Lutero, Marie Noël in Dios malo, Reinhold Schneider in contatto con il gemito della creazione, Simone Weil, Teresa di Lisieux la piccola via attraverso la notte, ecc.; 14 Cf F. Ruiz Salvador, San Giovanni della Croce. Gli scritti, il sistema, il santo, Roma 1973, 692-697: testi di J. Maritain, K. Rahner, D. Dubarle, ecc.; 15 Alcune caratteristiche generali della notte oscura nell'esperienza contemporanea si ritrovano in A.M. Bernard, Actualité de Saint Jean de la Croix, in Aa.Vv., Actualíté de Jean de la Croix, Bruges 1970, 111-127; 16 Cf S.L. Payne in The Philosopher and the Mystic, Michigan 1982, 14, rileva l'uso del simbolo " notte oscura " nella recente cultura nordamericana, che viene applicato alla guerra, alla resistenza, agli astronauti, ecc.

Bibl. M. Dupuy, s.v., in DSAM XI, 519-525; K.J. Egan, s.v., in Aa.Vv., New Dictionary of Christian Spirituality, Minnesota 1993, 247-248; Emeterio del S.C., La noche pasiva del espíritu de s. Juan de la Cruz, Vitoria 1959; R. Garrigou-Lagrange, Nuit de l'ésprit réparatrice en saint Paul de la Croix, in ÉtCarm 23 (1938)2, 287-293; A. Huerga, Il lungo cammino nella notte, in La Mistica II, 219-251; Louis de la Trinité, L'obscure nuit du feu d'amour, in ÉtCarm 23 (1938)2, 7-32; J. Peters, Dark Nights as a Way to Authentic Life, in Carm 22 (1975), 331-351; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 522-527; E. Salmann, Trockenheit, in WMy, 502-503; F. Wessely, Johannes vom Kreuz: die dunkle Nacht, in JMT 13-14 (1967-68), 63-85.

F. Ruiz Salvador

NOVALIS. (inizio)

I. Vita e opere. Friedrich Leopold von Hardenberg, nasce il 2 maggio 1752 a Oberwiederstedt, cresce nella tradizione pietistica e si laurea in legge. La morte della sua giovane fidanzata Sophie von Kühn (1797) segna una svolta decisiva nella sua vita. Sotto l'influsso degli scritti di Böhme, Zinzendorf ( 1760) e Schleiermacher ( 1834) egli diventa l'esponente più celebre del primo romanticismo tedesco. Fra le sue opere, rimaste incomplete e frammentarie a motivo della sua precoce morte (25 marzo 1801), ne ricordiamo tre: gli Inni alla notte, i Geistlichen Lieder (canti spirituali) e i Frammenti. Rivelano l'orientamento mistico-sentimentale del poeta verso Dio.

II. L'esperienza mistica attraverso le opere. Gli Inni alla notte. N. inizia a comporli nel 1797, dopo un " momento di lampeggiante estasi " alla tomba di Sophie. Divenuto " straniero ", l'uomo (egli stesso) " entra nella notte " che è la notte mistica dello sposalizio, nella quale compare la sua amata come " l'amabile sole notturno ". La sua visione della notte supera la realtà della notte, che assurge a simbolo della vera vita che non tramonta mai. La fidanzata - giocando sul significato del nome (Sofia-Sapienza) - diventa simbolo di Cristo, di modo che la tomba di Sophie e la tomba di Cristo confluiscono nel simbolo della morte d'amore che va cercata per giungere alla salvezza eterna. Nella tomba N. incontra, perciò, un mistero di risurrezione, ed è la stessa notte che avvolge la morte e gli dischiude infinite beatitudini. Ma se N. nei primi Inni sogna di congiungersi con Sophie nella mistica notte della morte, più avanti la prende come intermediaria perché lo conduca a Cristo (come la Beatrice dantesca) e perché nelle sue sembianze sembra brillare il volto dell'Amato, cioè di Cristo. Il cammino della notte significa, così, la vittoria sulla morte con le sue sofferenze e conduce all'eterno possesso dell'amore e alla risurrezione.

Questa scoperta di N. risulta pure dai Frammenti in cui egli ritorna sul cammino d'interiorizzazione che esige l'abbandono del mondo terreno dei sensi e delle apparenze per immergersi nel mondo vero, sostanziale di Dio, fino all'esperienza unitiva. Questo cammino, delineato da chi lo vive poeticamente e come un protestante che simpatizza per il cattolicesimo, termina con la presa di coscienza di poter raggiungere un universo nel quale convergono e culminano tutti i pensieri, tutte le poesie, tutte le attività umana. Esso è il luogo della religione, glorificato per tutto il Medioevo, ma distrutto con lo scisma del sec. XVI. Occorre ritrovarlo e ricondurre all'unità, come spiega in Die Christenheit oder Europa.

Nelle Geistlichen Lieder, un ciclo di quindici liriche destinate al canto liturgico, N. s'incentra nei misteri della fede. Nel cuore del ciclo si trova un inno che celebra il mistero della Cena: l'uomo che mangia la carne di Cristo e beve il suo sangue si unisce a Dio, termine della mistica. " Alla mensa del desiderio di unione " si attua la rinascita dell'uomo mediante il Cristo risorto, arcanamente presente. I canti di N., non composti per una confessione di fede comunitaria, ma per esprimere i sentimenti di chi partecipa intimamente agli eventi della vita di Gesù, s'ispirano all'Aurora nascente di J. Böhme. Rivelano una mistica cristocentrica con devoti richiami a Maria Vergine. Coronamento di questo spirito è il romanzo Heinrich von Ofterdingen di carattere autobiografico, che tocca però talvolta la linea limite del magico, della mitologia, presente anche in altri scritti. Le stesse idee teosofiche ed estetiche di N. e l'inserimento della natura nella speculazione mistica contribuiscono in lui a muoversi in tale direzione.

Bibl. Opere: Novalis, Opere, a cura di G. Cusatelli, Milano 1982; Id., Inni alla notte. Canti spirituali, a cura di V. Cisotti, Milano 19842. Studi: H.U. von Balthasar, Prometheus, Heidelberg 1947, 255-292; M. Besset, Novalis et la pensée mystique, Paris 1947; E. Biser, Abstieg und Auferstehung. Die geistige Welt in Novalis " Hymnen an die Nacht ", Heidelberg 1954; Giovanna della Croce, s.v., in DES II, 1720-1722; F. Hiebel, Novalis. Deutscher Dichter, europäischer Denker, christlicher Seher, Bern 19722; G. Kranz, s.v., in DSAM XI, 471-473; J. Lanczkowski, s.v., in WMy, 383-385; R. Meyer, Das Christuserlebnis und die neue Geistesoffenbarung, Stuttgart 1954; W. Nigg, Heimliche Weisheit, in Aa.Vv., Mystisches Leben in der evangelischen Christenheit, Zürich 1959, 417-446; G. Schulz, Novalis in Selbst-zeugnissen und Bilddokumenten, Reinbeck 1976.

Giovanna della Croce

NUBE DELLA NON-CONOSCENZA. (inizio)

I. L'autore e le fonti. E il titolo, a dir vero, enigmatico del primo trattato mistico scritto in lingua moderna da un anonimo certosino inglese di Beauvale nel Nottinghamshire, vissuto nella seconda metà del sec. XIV. Lo stesso autore fornisce l'elenco dei suoi scritti nella Lettera di direzione spirituale (cap. 7), il cui titolo originario è Il libro del consiglio privato. Si tratta di altre due Lettere rispettivamente sulla preghiera e sul discernimento, cui vanno aggiunti tre opuscoli: il Trattato sul discernimento degli spiriti, che traduce e parafrasa, amalgamandoli tra loro, due Sermoni di s. Bernardo; il Beniamino minore, che riassume, rendendolo più accessibile e più interessante dell'originale, l'omonima opera di Riccardo di s. Vittore; e, infine, la Teologia mistica di Dionigi, che volgarizza il De mystica theologia di Dionigi Areopagita.

Le fonti cui attinge, e delle quali offre scarsi riferimenti, sono senz'altro i Padri del deserto fino a Cassiano, senza dubbio Agostino e Gregorio Magno, nonché i mistici medievali tra cui Bernardo, Ugo di s. Vittore, Guigo II il Certosino, Bonaventura e Ugo di Balma. Non ignora la scolastica con il suo principe, Tommaso d'Aquino, ed è probabile che conosca il pensiero dei mistici renani. M. Noetinger coglie la peculiarità dell'Anonimo nel " tentativo appassionato, e in qualche modo riuscito, di dischiudere la via negativa di Dionigi alla caritas bernardiana " (cit. ne La nube..., 34), dal momento che lo stesso Anonimo afferma che " il fondamento e la forza di questo lavoro (contemplativo) risiedono nel dono glorioso dell'amore " (Lettera di direzione spirituale, c. 5). Infatti, egli riprende da Dionigi il titolo dell'opera maggiore, affermando che un'impenetrabile nube di ignoranza si frappone tra il nostro intelletto e la misteriosa realtà di Dio. A sua volta, il contemplativo ricaccia sotto una nube d'oblio il richiamo a qualsiasi realtà creata e perfino a se stesso e cerca di penetrare il mistero non attraverso lo sforzo speculativo, ma l'anelito d'una volontà amorosa. Tale anelito è detto " nudo intento ", ma anche " cieco sguardo ", " slancio d'amore ", che come un " improvviso impulso " squarcia la nube, nella quale soltanto, fin che si vive quaggiù, può essere percepito Dio. Da ciò segue l'invito a preferire l'esperienza (feeling) alla conoscenza e a ridurre l'orazione a un " grido spirituale ", formulato più con il cuore che con le labbra e racchiuso in espressioni brevissime, monosillabiche (in inglese) come God o Love (Amore) sul versante di Dio e Sin (peccato) sul versante dell'uomo.

II. La dottrina. Queste indicazioni sono offerte dall'opera maggiore, che si articola in settantacinque capitoli. Essa è indirizzata a un giovane ventiquattrenne, desideroso di abbracciare la vita contemplativa, cioè di trasformare ogni moto della volontà in un atto di amore verso Dio (cc. 1-4). Di conseguenza egli dovrà, da un lato, affrancarsi nella pratica dell'orazione da qualunque attività di tipo discorsivo-immaginativo (cc. 5-12), e dall'altro proporsi di accedere ai sommi gradi dell'orazione attraverso l'umiltà e l'amore (cc. 13-25). A questo punto occorre offrire consigli pratici o " stratagemmi spirituali " per superare le difficoltà in ordine a un " lavoro " - così egli lo definisce - che " fa seccare completamente le radici e le fondamenta del peccato " (cc. 26-33). I cc. 34-50 offrono a chi è ormai seriamente orientato all'esercizio contemplativo concrete indicazioni di metodo. Viene, quindi, richiamata la lectio divina, destinata a riassumersi nelle due parole chiave cui si è fatto cenno, che aiuteranno a infrangere il " blocco massiccio, orribile e puzzolente, del peccato ", che non è poi altro che lo stesso orante e nel contempo a raggiungere " il punto più alto e più eccelso dello spirito " cui è dischiusa la comunione silenziosa e amorosa con Dio. Meta, questa, quasi inaccessibile e per ciò stesso fonte di " dolore spirituale " per tutti i veri contemplativi. Ad essi si contrappongono i falsi contemplativi con i loro comportamenti scimmieschi messi in ridicolo dall'Anonimo in pagine ricche di humor (cc. 51-61). Occorre, pertanto, che si venga illuminati sul retto funzionamento delle facoltà umane (cc. 62-66), per poter approdare alle altezze della contemplazione, che immerge in una realtà considerata " nulla " dall'uomo esteriore, ma che cela il " tutto " di Dio (cc. 67-70), come avvenne per Mosè e per altre figure dell'AT (cc. 71-73).

La dialettica " tutto-nulla " è ripresa e inquadrata, anche concettualmente, nella seconda opera dell'Anonimo, la Lettera di direzione spirituale, di più netta derivazione dionisiana. Qui il " nulla " o meglio il " nullificarsi " è definito " nobile e amoroso ", mentre l'inabissarsi nel " tutto " ci fa quasi toccare la trascendenza (" alto ") e la santità di Dio (c. 5). La lettera ribadisce l'importanza di questo silenzio esistenziale davanti a Dio e dei frutti di cui è apportatore, consentendo, come il sonno lo è sotto un profilo psico-fisico, la rigenerazione spirituale. Assistiamo perciò a una progressione che dalla conoscenza conduce all'esperienza o " sentimento " del divino, e di qui approda a una totale trasparenza nei confronti di Dio da parte della creatura umana. Intervengono, in questo processo, sia il magistero delle Scritture, sia la guida del padre spirituale, sia il responso della coscienza. Si tratta di un processo che traduce l'evangelico " perdere la propria vita, per riaverla " e che si attua attraverso la mediazione di Cristo, definito " porta e portiere " dell'esperienza contemplativa. Porta, in quanto attraverso la sua umanità ci offre il passaggio alla divinità e portiere in quanto offre la propria divinità come punto di riferimento di ogni anelito contemplativo cristiano.

III. La riscoperta. Le opere dell'Anonimo, dopo un'iniziale travolgente affermazione, caddero pressoché nell'oblio, stante anche la lingua che si venne rivelando sempre più arcaica. Nel sec. XVII il benedettino Agostino Baker offrì un'intelligente commento della N. alla comunità monastica di Cambrai, di cui era cappellano. Ma si dovrà attendere gli inizi del sec. XX per assistere a una vera e propria rinascita di interesse verso le opere dell'Anonimo, di cui si offrirono l'edizione critica e la traduzione nelle principali lingue europee. Ha, quindi, ripreso a circolare un vero gioiello della letteratura mistica, ma anche della letteratura tout-court, se ci riferiamo alla vivacità e immediatezza dello stile, all'aderenza alla realtà psicologica, all'arditezza dei paragoni e delle immagini, alle descrizioni grottesche dei falsi contemplativi.

Un notevole contributo alla ripresa del metodo contemplativo proposto dall'Anonimo è stato dato negli anni Settanta dal trappista americano Basil Pennington, propugnatore della cosiddetta Centering prayer o preghiera centrica.1

Non poco interesse, infine, ha suscitato l'Anonimo per le valenze interreligiose della sua dottrina mistica, che presenta singolari paralleli con la mistica del buddismo giapponese. Come è noto, lo zen si avvale di una pratica meditativa, detta zazen, che postula un radicale silenzio, presentato come via obbligata per scendere alle proprie radici o, se si preferisce, " avvicinarsi al cuore " (come suona il termine giapponese sesshin che indica i ritiri zen). Simile discesa in profondità restituisce l'uomo a se stesso e gli consente una sorta di rigenerazione, non diversa - come aveva intuito l'Anonimo - da quella che si opera nel sonno. Autori cristiani evidentemente rileggono il " nulla " o mu, peculiare alla tradizione zen, all'interno della dialettica nulla-Tutto in cui si risolve l'esperienza mistica di matrice biblica.

Note: 1 Cf L'omonima operetta uscita a Garden City nel 1980.

Bibl. Ed. critica: P. Hogdson, The Cloud of Unknowing and Other Works, Oxford 1973 e Deonise Hid Divinite, Oxford 1958, in cui sono riportati i trattati minori. Classica l'ed. francese di M. Noetinger, Le nuage de l'inconnaissance, Solesmes 1977. Il maggior studioso contemporaneo dell'Anonimo, James A. Walsh, oltre all'art. Nuage de l'inconnaissance per il DSAM XI, 497-508, ha curato presso la Paulist Press The Cloud of Unknowing, New York 1981 e The Pursuit of Wisdom [si tratta del Beniamino minore] and Other Works, New York 1988. La prima ed. it. è apparsa con il titolo La nube della non-conoscenza, tr. di G. Brivio con intr. e note di A.M. Gentili, presso l'Ancora, Milano 1981 e successive edizioni. Altra tr. della sola opera principe La nube dell'inconoscenza, presso Gribaudi, Torino 1988. Il rapporto tra la Nube e lo zen è stato affrontato dal gesuita Hugo Lassalle, per oltre cinquant'anni in Giappone e guida di ritiri zen per cristiani, e da William Johnston. Si veda, del primo, Meditazione zen e preghiera cristiana, Roma 1979. Studi: H.D. Egan, L'anonimo autore della Nube della non-conoscenza, in Id., I mistici e la mistica, Città del Vaticano 1995, 407-418; A. Gentili - M. Regazzoni, s.v., in DES II, 1735-1737; W. Riehle, La nube della non conoscenza, in G. Ruhbach - J. Sudbrack (cura di), Grandi mistici II, Bologna 1987, 45-60; F. Wöhrer, s.v., in WMy, 92-93.

A.M. Gentili

NUDITA. (inizio)

I. Il termine n. ha diversi significati. Ne parlano le religioni non cristiane, se ne interessano la comunicazione, l'educazione e la spiritualità cristiana. Qui, infatti, ci interessa il suo significato spirituale-mistico, quindi, la n. in quanto tema ascetico-mistico, perciò, gli aggettivi interiore o spirituale sono quelli che precisano bene l'ambito entro cui ci muoviamo.

Il tema n. è collegato a quello della purificazione e dello spogliamento. In molti autori i temi di n., purificazione e spogliamento s'intrecciano fino al punto da riuscire difficile tenere separati i singoli argomenti. Tutti e tre questi temi guidano l'uomo per la via della sempre più grande disponibilità per Dio. Si tratta di far progredire l'uomo nella libertà spirituale attraverso la rimozione da sé degli affetti disordinati e la sottomissione alla volontà di Dio.

Quanto al significato specifico del termine n., c'è un suo archetipo biblico che è quello dei progenitori nel paradiso. Prima del peccato, " tutti e due erano nudi (...), ma non ne provavano vergogna " (Gn 2,25). Dopo il peccato, perché nudi, hanno avuto paura e si sono nascosti (cf Gn 3,10).

S. Gregorio di Nissa, parlando di n. in chiave teologico-spirituale, afferma la necessità di un " ritorno alla nudità originale di Adamo ". Secondo lui, l'uomo nello stato originale era nudo e ciò lo rendeva capace di vedere Dio. Contemplando il volto di Dio, l'uomo non giudicava niente secondo il gusto personale e secondo gli occhi, perché nel Signore trovava il piacere. Nello stato attuale, l'uomo si predispone a vedere Dio attraverso la contemplazione e la verginità che restaura in lui l'immagine divina delle origini.1 Secondo l'insegnamento di autori spirituali a cominciare dai Padri, lo stato di n. di Adamo significa l'innocenza nella quale egli fu creato. Lo scoprirsi, invece, di essere nudi, vuole dire il risveglio della concupiscenza nonché la debolezza umana.

II. Nella letteratura spirituale cristiana esistono due tradizioni riguardo alla n. L'una identifica la n. con la povertà evangelica e trova la sua forte espressione nella formulazione nudus nudum Jesum sequi (s. Girolamo).

Alla base di questo significato di n. si trovano le parole di Gesù: " Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli " (Mt 5,3). Diversi autori spirituali, a partire dai primi tempi del cristianesimo, insegnano un grande annientamento come fu quello del Signore crocifisso nello stato di povertà totale (Mt 27,35; Lc 23,34; Gv 19,23-24). Il vero problema del cammino spirituale, secondo la logica evangelica della n., non è costituito tanto dal mondo e dalla natura ai quali bisogna rinunciare, quanto dal nostro " io ". Cioè, " la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita " (1 Gv 2,16) che non permettono a Dio di essere il principio ispiratore del nostro agire. E necessaria una purificazione totale delle potenze e delle attività umane per rendere possibile una più alta conoscenza di Dio e l'unione con lui. In altre parole, assieme alla povertà reale ci devono essere la povertà dello spirito, il distacco dalle cose e la purificazione delle potenze per accedere alla conoscenza mistica di Dio e all'unione con lui.

L'aspetto positivo di questo annientamento è la presa di possesso del Cristo nell'ottica spirituale, secondo le parole di Paolo: " Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo, se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, per la quale dovete deporre l'uomo vecchio con la condotta di prima, l'uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici. Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera " (Ef 4,20-24). La n. che si ispira all'annientamento di Cristo include la n. di Cristo (nella nascita e nella morte) e la sua croce. Cristo è, allo stesso tempo, colui che " spogliò se stesso " e il crocifisso. E una spiritualità che ha Cristo per centro: non solo rinuncia, distacco, ma anche partecipazione alla sua vita.

L'altra tradizione spirituale, riguardo alla n., trova la sua espressione specifica nell'esperienza e nella dottrina dei contemplativi e dei mistici e identifica la n. con la purificazione sul piano della fede.

Il cammino spirituale secondo la logica della n. dello spirito non si esaurisce con la via negativa dello spogliarsi di tutto. Per la grazia di Dio, questo itinerario conduce per un cammino di fede nuda, per giungere fino ad una vera " mistica dell'annientamento ". E emblematico l'insegnamento di Dionigi Areopagita, seguito poi da molti altri autori, che parla di nudità del mistero che il cristiano è invitato a contemplare. Occorre, secondo lui, spogliarci di simboli sensibili per guardare i segreti in se stessi, resi puri e nudi. Contemplandoli, si potrà così onorare la Fonte della vita.

La n. della fede, considerata alla luce dell'esperienza dei mistici, più che una rottura o un superamento dell'accezione ascetica di essa si pone in continuità. L'accento si sposta dalla povertà nello spirito, per seguire Cristo, alla disponibilità totale per Cristo per essere come vuole lui. Quest'ultima situazione è intesa come superamento o sospensione di attività spirituali per accedere alla conoscenza mistica di Dio e all'unione con lui. Il massimo della vita spirituale si raggiunge quando l'uomo, realizzando il programma ascetico-mistico della n., entra nella comunione di vita con Dio.

Degli autori spirituali si devono ricordare s. Bonaventura, " se fossimo ferventi, seguiremmo nudi il Cristo nudo ", e i mistici del nord, in particolare Eckhart, che fece oggetto della propria meditazione la n. di Cristo nella passione. Secondo lui, vivere in una pura n. è vivere in una libertà perfetta, perché l'uomo " non deve sottoporsi a nulla né prendere nulla: né poco né molto, poiché tutto ciò che appartiene a Dio appartiene a lui ".2

Ruusbroec parlò di " n. essenziale che consente al nostro spirito di essere uno con il Padre e con la sua natura divina. Benedetto da Canfield indicò la purificazione e l'illuminazione come doppio effetto del progresso nella n.

Quanto a s. Giovanni della Croce, vediamo che l'opera Salita del Monte Carmelo ha per fine, come dice il suo lungo sottotitolo, " (...) che l'anima resti in una piena n. e libertà di spirito, quale si richiede per la divina unione ". Infatti, nel Proemio, n. 8, afferma che in quest'opera " si troverà sostanziosa e sana dottrina per chiunque voglia acquistare la vera povertà e n. di spirito ".

E da notare che l'unione con Dio, secondo Giovanni della Croce, non è un semplice atteggiamento affettivo, ma una partecipazione alla vita delle Persone divine. Perciò, la n. dà all'anima una capacità particolare per ricevere Dio ed effondersi in lui. Sarà questo il motivo per cui egli afferma: " Se l'anima si abitua al sapore della devozione sensibile, non riuscirà mai a passare alla forza del diletto spirituale che si trova nella nudità dello spirito mediante il raccoglimento interiore ".3

Il tema centrale della spiritualità cristiana, secondo Francesco di Sales è amore puro: amare Dio perché è Dio e amarlo sopra tutte le cose. La via e il mezzo che portano a tale amore sono il vivere secondo la volontà di Dio. Nella volontà di Dio egli distingue due modi di manifestarsi di essa: volontà di Dio significata, che conosciamo attraverso i comandamenti di Dio, i precetti della Chiesa, ecc. e la volontà di beneplacito di Dio, che conosciamo attraverso gli avvenimenti e le situazioni di vita. Da parte dell'uomo, l'atteggiamento che segue la volontà di Dio è quello della perfetta indifferenza, insegna Francesco di Sales. A suo modo di dire, " nulla domandare e nulla rifiutare " costituisce la sintesi di tale atteggiamento.

L'esempio di progresso nello spirito di n. insegnata da Francesco di Sales fu Giovanna Francesca di Chantal. Ne sono prova le cinque lettere che Francesco di Sales le scrisse tra il 15 e il 21 maggio 1616, i giorni in cui la santa, guidata dal suo direttore spirituale, fece il suo ritiro annuale.

Ecco alcuni pensieri che riportiamo da quelle lettere: " Quando mai questo amore naturale (...) sarà purificato e sottomesso e obbediente all'amore purissimo del beneplacito di Dio? "

" Dovete (...) restare come una povera, piccola e meschina creatura davanti al trono della misericordia di Dio; restarvi nuda, senza mai chiedere atti o affetti (...) ma, allo stesso tempo, rendervi indifferente per tutti quelli che a lui piacerà ordinarvi ".

"Dovete (...) restare per sempre tutta nuda (...) quanto all'affetto".

"Dovete restare in questa santa n. fino a che Dio non vi rivesta (...). Non pensate più né all'amicizia né all'unità che Dio ha stabilito fra noi, né ai vostri figli, né al vostro corpo, né alla vostra anima né ad altra cosa, perché avete abbandonato tutto in Dio ".

Prego "Dio che, dopo avervi guidata all'amabile e santissima purità e n. dei suoi figli, vi prenda ormai fra le sue braccia (...) per portarvi, secondo la sua volontà, alla più alta perfezione del suo amore".

Anche in altre occasioni Francesco di Sales aveva orientato Giovanna Francesca di Chantal verso il traguardo mistico della n.: "Oh, quanto sono beati coloro che sono nudi di cuore, poiché il nostro Signore li rivestirà di grazie, di benedizioni e della sua speciale protezione. Povere e misere creature, come siamo in questa vita mortale, non possiamo quasi far nulla di buono, se non soffrendo per questo qualche male (...), spesso ci conviene lasciare Dio per Dio, rinunciando alle sue dolcezze per servirlo nei suoi dolori e nelle sue sofferenze ".4

"Bisogna spesso mettersi nella santa indifferenza e dire: "Non voglio questa né quell'altra virtù, ma solo l'amore del mio Dio, il desiderio del suo amore e il compimento della sua santa volontà in me" ".5

"Poiché avete inabissato la vostra volontà nella sua, che avete presa come vostra, non dovete più voler nulla, ma lasciarvi guidare e portare secondo il beneplacito della divina volontà, alle disposizioni della quale dovete rimettervi con serenità e tranquillità, senza allontanarvene per nessun motivo e cercando solo di vedere sempre e in tutto nostro Signore ".6

Note: 1 Cf De virginitate 12,4; 2 Predica, Homo quidam nobilis; 3 Salita del Monte Carmelo III, 40,2; 4 Opere, XVII, 79; 5 Ibid., XXI, 165; 6 Ibid., XXI, 170.

Bibl. Aa.Vv., s.v., in DIP VI, 469-478; G. Constable, " Nudus nudum Christum sequi " and Parallel Formulas in the Twelfth Century: A Supplementary Dossier, in Continuity and Discontinuity in Church History, a cura di F.F. Church - T. George, Leiden 1979, 83-91; R. Grégoire, s.v., in DSAM XI, 508-513; A. Solignac, Nudité dans la littérature mystique, in Ibid., 513-517; J. Sudbrack, " Nackt dem nackten Christus folgen ". Eine Besinnung über menschliche und christliche Askese, in Com 10 (1981), 218-237.

J. Stru

NULLA. (inizio)

I. Il significato. Questo vocabolo è noto nell'ampio ambito filosofico e religioso. Il concetto del n. è presente, perciò, nel pensiero di alcuni filosofi antichi, medievali e moderni. Per i filosofi, generalmente, il n. è l'opposto dell'ente. Il suo significato, quindi, è da scoprire nella relazione del n. all'essere. Ma il n. non è un'inesistenza. " Esso ha un tratto di infinitudine; è qualcosa come un abisso infinito. Non vi si trova alcun limite né per quanto riguarda lo spazio e il tempo nè di nessun altro tipo. Non vi si trova né un fondo né una fine. Si tratta della profondità abissale in cui si può cadere e in cui si deve, infine, cadere senza giungere mai a una fine. Il n. non finisce mai. Esso rifiuta ogni limite, ogni limitazione e ogni determinazione " (B. Welte).

Questa citazione richiama il pensiero di B. Pascal: " Bruciamo dal desiderio di trovare un fondamento solido e una base ultima e duratura per costruirvi sopra una torre che s'innalzi fino all'infinito. Ma tutto il nostro fondamento crolla e la terra si apre fino agli abissi ".1

Di n. parla la mistica delle religioni d'Oriente, soprattutto il buddismo con la dottrina del " vero nulla " e del " vero vuoto " (nirvana). In genere, le religioni intendono con il n. l'esperienza del divino, ma anche la morte, l'aldilà, l'immortalità e l'eternità.

II. Nell'ambito religioso-spirituale. Pur accennando alla molteplicità dei significati del n. che incontriamo nelle esperienze e nel pensiero del passato e del presente, ci interessa il suo significato teologico-spirituale. Quanto all'ambito teologico-cristiano, il n., nel suo primo significato, richiama la creazione divina del mondo dal n. Successivamente, il n. significa che dobbiamo tacere su ciò intorno a cui non siamo in grado di esprimerci. Cioè, il n. può essere inteso come il segno caratteristico dell'essere creaturale in quanto incontra l'incomprensibile pienezza di Dio. Nella storia della teologia cristiana, a partire dai Padri, è stata sottolineata l'incomprensibilità di Dio. Per questo motivo, la patristica e il Medioevo svilupparono la theologia negativa per modum negationis et eminentiae. Accanto ai molti teologi come Tommaso d'Aquino e Nicola da Cusa ricordiamo l'affermazione del Concilio Vaticano I, secondo cui Dio è incomprensibile. E il modo per evidenziare Dio come Dio, distinto da ogni altra creatura. E una protesta contro una tendenza di voler impadronirsi di Dio in una dottrina sistematica.

III. Nell'esperienza mistica. L'incomprensibilità di Dio è un tema costante in tutti i mistici cristiani. Sulla scia di Dionigi l'Areopagita " gli stessi teologi hanno dato maggior valore al metodo negativo poiché esso affranca l'anima dagli oggetti che le sono familiari e, mediante queste divine intellezioni, inferiori a colui che trascende ogni nome, ogni intelligenza, ogni sapere, l'unisce infine a lui, nella misura almeno in cui l'uomo può accedere a una tale unione".2

Dionigi l'Areopagita, che fu una ricca fonte per il n. dei rappresentanti della mistica cristiana, disse di Dio che è un " n. ", un " puro n. ". La mistica tedesca sottolineò l'infinita trascendenza di Dio in rapporto alla creatura. Il nostro umano linguaggio, secondo loro, è inadeguato ad esprimere la trascendenza di Dio. Così si spiega come i mistici siano giunti a chiamare Dio il n.

Eckhart, il massimo rappresentante della mistica tedesca, sviluppa questo tema con una sovrabbondanza di negazioni insolite, evidenziando l'idea che Dio è senza nome perché nessuno può comprendere nulla di lui. D'altra parte, però, insiste sulla grandezza dell'uomo concessagli da Dio.

" Devi fare tutto ciò che puoi in tutte le tue opere unicamente a lode di Dio e devi essere così libero come è libero il n. che non è ancora né qua né là ".3

" Tu devi essere spoglio del n. Ci si domanda: che cosa brucia nell'inferno? I maestri dicono di solito che è la volontà personale. Io dico invece che ciò che brucia nell'inferno è il n. (...) Se Dio e tutti coloro che contemplano Dio hanno in sé, nella vera beatitudine, ciò che non hanno coloro che da Dio sono separati, questo n. tormenta le anime che sono nell'inferno più che la volontà propria o il fuoco (...). Nella misura in cui il n. è attaccato a te, altrettanto sei imperfetto. Se, dunque, volete essere perfetti, dovete essere spogli del n. ".4 " Tutte le cose sono create dal n., perciò la loro vera origine è il n. e in quanto questa nobile volontà si piega verso le creature, scorre insieme con le creature verso il n. ".5

Anche Ruusbroec sottolinea il contrasto tra la pochezza umana e la grandezza di Dio e dei suoi doni. Secondo lui, la grazia divina si manifesta, talvolta, con tanta forza che l'uomo si sente un n. Ottenebrato dalla chiarezza di questa luce si crede " perduto, vinto dall'amore immenso di Dio ". Il n. dell'uomo, secondo Ruusbroec, si fonda sulla positività di cui Dio dota le creature: " In ipsa unione semper creatura manemus ".

Anche in Angelo Silesio troviamo il pensiero dell'infinita trascendenza di Dio: " Più conoscerai Dio e più riconoscerai che tu puoi sempre meno esprimere ciò che egli è ".

Pure s. Giovanni della Croce, chiamato anche dottore del n., parla di Dio in quanto radicale trascendenza. " Dove ti sei nascosto, Amato, che gemente mi hai lasciato? Come il cervo fuggisti, dopo avermi ferito; gridando t'inseguii, ma eri sparito ".6 Per raggiungerlo, occorre salire nelle tenebre - come dicono i titoli delle sue opere: Salita del Monte Carmelo e Notte oscura - camminare nel " n. del somigliante " al mondo creaturale, abbandonare i modi umani di comprendere e di amare.

Giovanni della Croce chiama " abisso della fede " l'esperienza di buio e di vuoto attraverso i quali l'anima è condotta all'unione con Dio.7 Nell'abisso della fede non si cade per legge di gravità, ma per grazia di Dio. Una vita teologale vissuta con impegno, prepara l'uomo che affida se stesso alla guida di Dio.

La fede, formalmente presa, è dedizione personale di sé da parte dell'uomo al Dio che gli si rivela e che lo interpella. E importante ricordare il concetto esatto di fede. Trattandosi di una relazione tra persone, la formula fondamentale di fede è " io ti credo "; " credo in te ", e non " credo in qualcosa ". La fede cristiana è un atto personale, un incontro dell'io umano col Tu divino. Nell'atto di fede l'uomo entra in rapporto personale con il Dio che si rivolge a lui. Col credere a Dio, l'uomo si fonda sulla veracità divina e, proprio per questo, si rimette e si abbandona fiduciosamente al Dio della verità.

L'uomo, nella sua creaturalità, sperimenta che continuamente Dio gli è presente in una maniera del tutto intima. Dio gli si dona non per la mediazione di segni creati, non in rappresentanza, ma con la sua presenza personale interior intimo meo. Il mistico, per esperienza, può dire di se stesso: per me Dio è interior intimo meo, perché Dio è in lui con la sua presenza personale. L'amore di Dio provoca l'intero uomo a sforzarsi di scoprire il contenuto nascosto del mistero e ad abbandonarsi fiduciosamente. " Perché si possa prestare questa fede sono necessari la grazia di Dio, che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia "a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità" " (DV 5).

L'uomo è in grado di stabilire e approfondire i legami personali con Dio che gli permettono di accettare l'amore offerto come tale. Il n. come esperienza spirituale è possibile nel contesto della fede dove la volontà di Dio viene accettata. E capace di n., in quanto esperienza spirituale, chi accetta l'amore donato e, allo stesso tempo, corrisponde con la donazione di se stesso.

Nel cristianesimo, il n. allude all'esperienza di Dio che chiamiamo mistica. L'esperienza mistica cristiana è tale perché è l'esperienza del " mistero " o di Dio-mistero che è l'Amore. Dio si accosta a noi come il mistero con tutta la sua incomprensibilità.

Le testimonianze dei mistici affermano che è possibile che, in un dato momento del cammino spirituale, Dio lasci intravedere all'uomo le dimensioni del suo mistero personale e della sua opera nel mondo. Non solo. Dio può far sperimentare questo mistero all'uomo. E allora che il credente proverà il peso di tanta luce, sì da sentirsi al buio.

Note: 1 Pensieri, Torino 1962, Frammento 72; 2 Nomi divini, 13,14,981b; 3 Intravit Jesus in templum; 4 In hoc apparuit caritas Dei; 5 In hoc apparuit caritas Dei; 6 Cantico spirituale str. I; 7 Salita del Monte Carmelo II, 4,1.

Bibl. A. Gouhier, s.v., in DSAM XI, 64-80; A. Haglof, Buddhism and the Nada of s. John of the Cross, in Carmelite Studies, 1 (1980), 183-203; K. Hemmerle, s.v., in K. Rahner (cura di), Sacramentum Mundi, V, Brescia 1976, 637-642; W. Strolz (cura di), Sein und Nichts in der abendländischen Mistik, Freiburg i. Br. 1984; C. Verhoeven, Dove va Dio? L'esperienza del vuoto ai confini della speranza, Brescia 1970; B. Welte, Luce del nulla. Sulla possibilità di una nuova esperienza religiosa, Brescia 1983.

J. Stru

OBBEDIENZA. (inizio)

I. Dio Padre. L'o. parte e si radica nella " visione " di Dio onnipotente e provvidente: Dio pensa all'uomo più di quanto questi pensi a se stesso. Si preoccupa di lui, lo conosce e sa ciò che può costituire il suo bene e la sua felicità. Egli sa e può realizzarlo meglio di quanto possa farlo l'uomo con tutte le sue ricerche e i suoi progetti.

Inoltre, Dio vuole portare alla pienezza le potenzialità che egli stesso ha seminato in ogni uomo.

Da questa " intuizione "-" dono " viene la domanda: " Che vuoi, Signore, che io faccia? " " Mostrami, Signore, le tue vie ", le uniche vie che conducono al proprio porto ciò che naviga nel gran mare dell'essere.

II. Dio Figlio. Per il cristiano, decisiva è la contemplazione del mistero di Gesù, che si è presentato come Figlio, tutto rivolto verso il Padre, il cui cibo era compiere la volontà del Padre, il cui progetto di vita era realizzare l'opera del Padre.

Gesù si affida totalmente al Padre perché viene da lui e a lui ritorna. Egli si manifesta Figlio proprio attraverso l'o., fino alla morte e alla morte di croce.

Dalla contemplazione del mistero del Figlio, viene l'o. del discepolo. Se Gesù invita alla sequela, il discepolo obbedisce. Obbedisce proprio perché ha compreso, per dono del Padre, che la sequela e l'imitazione di Gesù sono il modo più alto di fare la volontà di Dio nel mondo.

III. Dio Spirito Santo getta luce sul mistero dell'o., un mistero talvolta particolarmente oscuro e ostico alla natura umana, come lo è tutto quanto avvolge la croce.

Senza questa luce interiore, senza tale esperienza spirituale, l'o. è schiavitù insopportabile, è abdicazione alla propria personalità, è irrazionale mortificazione dei propri talenti e della propria personalità.

Ma grazie alla luce e alla forza dello Spirito, la madre Chiesa si rallegra di trovare nel suo seno uomini e donne che desiderano conformarsi più pienamente a Cristo (cf LG 42).

La potenza dello Spirito è tale da riprodurre i sentimenti di Cristo nel discepolo come esigenza interiore dettata dall'amore verso il Padre e verso la sua volontà.

Così la persona si mette totalmente ed esclusivamente nelle mani di Dio per divenire spazio della sua azione nel mondo. Essa, avendo compreso chi sia Dio fa tacere la sua volontà e in questo silenzio e vuoto lascia libero campo all'azione di Dio nel mondo e per il mondo.

La missione ha inizio quando, sull'esempio della Vergine Maria si afferma: " Ecco, si faccia di me secondo la tua Parola ". A partire da questa disponibilità, Dio può iniziare la sua opera nel mondo.

IV. O. " mistica ". L'affidamento totale a Dio, nell'o. della fede è una sfida frontale lanciata all'uomo di tutti i tempi, un uomo, a dire il vero, non proprio sicuro di sé, della propria progettualità, della capacità di autorealizzarsi, ma pur sempre terribilmente geloso della sua autonomia e della sua libertà incondizionata.

La sfida è frontale, ma salutare, specie se l'o. del cristiano è " mistica ", sostenuta cioè dallo slancio interiore verso il Padre e verso i fratelli, quando cioè diventa fonte di capacità di servizio, diventa libertà di servire come ha saputo servire il Signore Gesù.

L'o. appare così come fonte di liberazione da tutto ciò che impedisce di essere capace di donarsi.

Paradossalmente, mentre la rivendicazione della libertà personale degera facilmente in individualismo egoistico, l'o. cristiana mette spesso in libertà dinamismi costruttivi di solidarietà.

L'o. cristiana risulta essere così un vero mistero di salvezza: sia perché è attraverso l'o. che Dio riconcilia a sé il mondo, sia perché la società gode di energie tese al bene comune, promotrici di fraternità.

Dopo l'o. della croce, ogni o. d'amore diventa fonte di vita per il mondo.

Bibl. Aa.Vv., Obbedienza cristiana, in Con 16 (1980) 9, tutto il numero; P.G. Cabra, Con tutta l'anima, Brescia 1984; I. De La Potterie, L'obbedienza di Cristo fondamento e modello dell'obbedienza cristiana, in ViCons 15 (1979), 531-540; T. Goffi, s.v., in NDS, 1075-1091; Id., s.v., in DES II, 1739-1743; Id., Obbedienza e autonomia personale, Milano 1968; L. Guccini, Obbedienza, vita dello Spirito, Bologna 1981; A. Hayen, Comunione e obbedienza nella libertà, Milano 1973; H. Rondet, L'obéissance, problème de vie, mystére de foi, Lyon 1966; J.M.R. Tillard, s.v., in DSAM XI, 535-563 (con ampia bibliografia).

P.G. Cabra

ODIO DEL MALE. (inizio)

I. Nozione. L'odio è il sentimento di profonda ripulsa o di rifiuto verso una realtà (persona o cosa) tanto da desiderare per essa ogni male.

Odiare il male comporta desiderare il massimo di male al male! Si vuole con tutto il cuore e con tutte le proprie forze che esso scompaia.

Evidentemente tale odio è carità, come fa osservare s. Tommaso: " Odium perfectum alicuius mali ad caritatem pertinet ".1 Come il godere, infatti, del male di uno è espressione di malvagità improntata all'odio,2 così provare radicale contrarietà per il male in genere o per qualche male in specie è segno positivo di amore. Voler rimuovere il male in qualcuno o in qualcosa è un atto buono.3

II. Ma che male intendiamo qui? Non qualsiasi tipo di realtà che realmente sia tale o che soggettivamente lo sembri. Né prendiamo in considerazione malattie o disastri economici o sciagure naturali o simili. Escludiamo, inoltre, tassativamente l'odio alle persone malvage, perché esso è solo un estendere e dilatare l'odio e non già fermare il male. Come è vero che il male non è mai assoluto, ma s'innesta sempre su una realtà buona, così un uomo malvagio non è mai totalmente tale.

Qui si vuole parlare del male morale, che giustamente va odiato, ossia respinto con il cuore e con le opere, seguendo il principio: " Vinci il male con il bene " (1 Pt 2,15).

Il Dottore angelico annota che il bene sommo senza alcuna ombra di male esiste, anzi c'è nel modo più pieno: è Dio.4 Invece, il male assoluto senza alcuna parte di bene non si può dare: è metafisicamente impossibile.5 Ed è pure impensabile che un uomo possa desiderare il male solo come male, perché lo vorrà invece per una parte realmente buona o almeno per una parvenza di bene.6

Per noi cristiani è doveroso respingere " con vero odio " il male-peccato. Potrebbe sembrare astratto questo atteggiamento; al contrario, è di una sconcertante concretezza.

Nel peccato, infatti, - cioè nell'offesa a Dio e alla sua legge - rientra innanzitutto l'atto di volontà ribelle, di falsa autonomia, di orgoglio che invade il cuore dell'uomo, purtroppo in maniera spesso inarrestabile. E da qui, poi, procedono tutti i gesti - ora di estrema, ora di media o anche piccola, ma pur sempre considerevole gravità - che insozzano la storia di superbia, avarizia, lussuria, ira, ecc. (i sette vizi o peccati capitali, con tutte le più tristi e vergognose loro variazioni).

Se l'uomo non può mai comprendere tutto il bene e tutto il male (la tentazione, secondo la Bibbia, è proprio questa: " Diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male " [Gn 3,5]) e se non può mai dire di avere fissato per sempre con la sua intelligenza i confini dell'uno e dell'altro, ciò non vuol dire che almeno qualcosa di certo sul bene e sul male non si possa affermare e che noi, amando il bene e odiando il male, ci autoinganniamo in tutto, miserevolmente.

Il cristiano che ogni giorno prega il Padre, chiedendo: " Liberaci dal male ", è senza dubbio l'emblema dell'uomo che, sentendo tutta la verità della malizia che pervade anche le sue membra e che inquina l'atmosfera del mondo, nutre un incontenibile desiderio del bene e un profondo o. (non dei malvagi). E, con tutto questo, sa che il male non è il vero padrone della storia, perché la grazia è più forte del peccato (cf Rm 7-8).

III. Esiste, poi, un'altra forma di odio, ossia l'odio contro tutto ciò che impedisce di elevare il proprio amore verso Dio. Questo genere di odio è rivolto perfino verso le persone più care, come il padre, la madre, i fratelli, ecc., secondo la pericope evangelica: " Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la propria vita, non può essere mio discepolo " (Lc 14,26). Tale odio, che comunque non è desiderio di male, è indispensabile per seguire il Cristo e, attraverso lui, raggiungere la comunione di vita con le divine Persone. A tale scopo va combattuto anche ogni amore sregolato di sé, quell'amore per la propria vita di cui parla Giovanni (cf 12,25) per concentrare tutto il proprio amore su Dio, per conseguire quella perfezione della carità in cui l'unico assoluto della propria vita è Dio.

Note: 1 STh II-II, q. 256 ad 1; 2 Cf Ibid., II-II, q. 108 1co; 3 Cf Ibid., II-II, 33 1co; 4 Cf Id., Contra Gentes, IV, 86; 5 Cf Ibid., III, q. 140; STh I, q. 17, 4 co 2, I-II, q. 45 a. 2 ad 1; 6 Cf Ibid., I-II, q. 27, a. 1, ad 1.

Bibl. A. de Bovis, s.v., in DSAM VII1, 29-50; A. Di Geronimo, s.v., in DES II, 1747-1750; H. Henry, L'étude de motivation, Paris 1959; P. Janet, L'amour et la haine, Paris 1932; M. Scheler, Essenza e forma della simpatia, Roma 1980; C. Spicq, Théologie morale du N.T., Paris 1965; Tommaso d'Aquino, Contra Gentes e Summa theologica (luoghi citati nel testo); E. Weber, La carità cristiana, Roma 1947.

R. GirardelloODORE (osmogenesi). (inizio)

I. La nozione. Si tratta di un o. diverso da quelli naturali, che emana da un corpo vivente o sepolto, in maniera temporanea o costante.

II. Spiegazione. Noi siamo dinanzi a Dio il profumo di Cristo (cf 2 Cor 2,15). Gregorio di Nissa 1 parla di aroma delle virtù: " Uno è profumato dalla temperanza o dalla sapienza, un altro dalla giustizia o dalla magnanimità. Ignazio di Loyola invita chi fa gli esercizi ad odorare l'infinita soavità della divinità, dell'anima, delle sue virtù e di tutto.2 Nell'agiografia si hanno esempi di profumo percepito dall'olfatto. La più antica testimonianza si ha negli Atti dei martiri. " Il fuoco non intaccò il corpo di s. Policarpo, anzi un profumo d'incenso e mirra allontanava il cattivo odore dell'incendio ".3 Nel libro delle Fondazioni di Teresa d'Avila si legge che da Caterina Cardona, ospite del convento di Toledo, usciva un profumo così soave che spingeva a lodare Dio. E la santa conclude che " quelle monache non dicono nulla che non risponda a verità " (28, 22-32).

Giovanni della Croce spiega così il fenomeno: il Signore perfeziona i sensi " con alcune grazie e favori soprannaturali..., come visioni..., odori soavissimi, locuzioni..., grazie a tali favori il senso si conferma molto nella virtù e si libera dell'appetito degli oggetti cattivi ".4

L'autenticità del dono dipende dalla vita teologale vissuta dalla persona in questione.5

Note: 1 Comm. al Cantico dei Cantici: PG 44, 781; 2 Esercizi spirituali, n.124; 3 Atti dei martiri, Milano 1985, 110; 4 Salita del Monte Carmelo II, 17,4; 5 Cf Ibid., cc. 19 e 30.

Bibl. A. Farges, Les phénomènes mystiques, Paris 1923; I. Rodríguez, s.v., in DES II, 1751; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 1128-1132.

P. Schiavone

OFFERTA DI SE. (inizio)

I. Il gesto dell'o. è fatto così immediato e risolutivo, sotto la spinta dello Spirito, da essere difficilmente analizzabile da un punto di vista antropologico.

Si può partire dal fatto elementare del trascendimento di sé, come momento umanamente indispensabile nella crescita della persona. L'apertura dei sensi, la mutevole espressività del volto, il linguaggio dei gesti, la relazionalità della parola dicono la vocazione personale ad uscire da sé (a trascendersi) per la propria più perfetta definizione di uomo. Questo istinto relazionale può conoscere delle patologie più o meno gravi in forme autistiche di rinchiudimento su di sé. Quanto è detto a proposito di Gesù in Luca che " cresceva in sapienza, età, e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini " (2,52) indica bene le condizioni di un progressivo e felice trascendimento. I miracoli di guarigione e la stessa predicazione di Gesù sono, liberati i sensi esteriori e interiori dai demoni sordi e muti, nella prospettiva di un trascendimento capace di portar oltre.

II. Questo " andar oltre " può essere indicato come adempimento, cioè come risposta ad una sollecitazione. Si propone, dunque, come una cosa voluta, quasi obbedienza ad un valore nella sua oggettività e nella sua capacità di o. E qui la risposta può avvenire nella reciprocità (adempimento di amicizia) o nell'obbedienza (adempimento vocazionale) o nell'adesione pura e semplice (adempimento di gratuità). Si può riscontrare un passaggio di grado tra la forma della reciprocità con le sue gratificazioni e le forme dell'obbedienza con le sue esperienze di sacrificio. Un ulteriore passaggio è possibile riscontrare tra questi e la gratuità propria di un'adesione totale al valore, cioè al divino. Gesù ha chiamato i suoi affinché stessero con lui (cf Mc 3,14) e fossero educati a quell'estremo trascendimento nonché a quell'adempimento ultimo della missione (guarire e predicare); designandoli come amici e facendoli discepoli nell'obbedienza alla volontà del Padre; guidandoli alla lode di una gratuità perfetta: " Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te " (Mt 11,26).

III. Questa oblatività, quale o., esige innanzitutto una chiara memoria di sé, perché nell'o. sono il proprio essere e la propria storia che vengono offerti (non il nulla).

Certamente memoria penitente per la consapevolezza delle proprie insufficienze, memoria ammirata per l'opera compiuta sotto l'azione purificatrice e illuminante dello Spirito, e memoria per questo riconoscente. E tuttavia, quasi paradossalmente, l'o. esige la dimenticanza di sé, quale condizione di una consegna abbandonata e felice di sé nelle mani del più Grande. Questi due momenti, tuttavia, sono ancora una sorta di attività dove anche Dio è impegnato.

Quando interviene lo Spirito Santo in grado pressoché totale, allora si è portati da lui come su " ali d'aquila ", frutto di quell'iniziale " Ecce " che ha in Maria il suo esemplare più alto, eco di quell'altro " Ecce ", quello di Cristo, il quale " entrando nel mondo, dice: "Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Alloro, ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà"" (Eb 10, 5-7).

Bibl. A. de Bovis - W.C. van Dijk, Offrande, in DSAM XI, 720-733; G.G. Pesenti, Dono di sé, in DES I, 846-848; G. Schryvers, Il dono di sé, Torino 1963; J. Tonneau, Don de soi, in DSAM III, 1567-1573.

C. Massa

OLIER JEAN-JACQUES. (inizio)

I. Vita e opere. " Uno dei nostri buoni mistici ": è così che Bossuet definisce O.1 Egli è soprattutto conosciuto come il grande curato riformatore della parrocchia di Saint-Sulpice di Parigi e come il fondatore del Seminario e della Compagnia dei sacerdoti di Saint-Sulpice. E prima missionario, discepolo di s. Vincenzo de' Paoli e lavora molto per la fondazione di Villa-Maria (Montréal in Canada). Ma le sue esperienze e la sua dottrina spirituale sono eccezionali. La sua influenza resta importante per i fondamenti biblici, patristici e teologici dei suoi scritti e per l'ascendenza sui suoi eredi spirituali.

Nato a Parigi nel 1608 da una famiglia della " nobiltà di toga ", studia a Lione, poi a Parigi, presso i gesuiti e alla Sorbona. Ordinato sacerdote nel 1633, si pone sotto la direzione di Vincenzo de' Paoli, poi di Condren. Vincenzo lo invia come missionario in diverse zone della Francia. Dopo essere passato attraverso una grande prova psicologica e spirituale, che egli racconta nelle sue Mémoires manoscritte, fa una vera " esperienza dello Spirito Santo " che lo libera interiormente per un servizio apostolico nuovo ed intenso.

Nel dicembre 1641, fonda un seminario a Vaugirard, vicino Parigi. Nominato curato di Saint-Sulpice nel 1642, vi trasferisce l'omonimo seminario da lui fondato e svolge per dieci anni un'attività pastorale e educativa sorprendente tra molteplici difficoltà.

A partire dal 1651, dopo aver fatto consegnare all'Assemblea del Clero in Francia un Projet pour l'établissement d'un Séminaire dans un diocèse e dopo aver fatto consacrare da un Nunzio la nuova cappella del seminario di Saint-Sulpice, è indotto a limitare le sue attività, a causa di una malattia. Continua ad assicurare la fondazione di vari seminari: Nantes (1649), Viviers (1650), Le Puy (1653) e Clermont (1656). Prepara l'invio dei " Sulpiziani " a Montréal (1657). Compone anche qualche opera di spiritualità: La journée chrétienne (1655), Le Catéchisme chrétien pour la vie intérieure (1656), l'Introduction à la vie et aux vertus chrétiennes (1657). Muore il 2 aprile 1657. Solo nel 1676 L. Tronson pubblica il celebre Traité des Saints Ordres, utilizzando estratti di scritti di O., apportandovi alcuni cambiamenti dannosi, come ha documentato un recente studio critico. Numerosi manoscritti, soprattutto numerose Mémoires scritte su richiesta del suo direttore spirituale padre Bataille, permettono di conoscere bene O., ma sono soprattutto le sue Lettere (1672) che danno di lui la migliore testimonianza come educatore spirituale.

II. Insegnamento spirituale. Seguendo Bérulle - egli ha avuto Condren come direttore dal 1635 al 1641 -, O. insiste sull'adorazione della Trinità, sulla comunione ai sentimenti di Gesù (" O Gesù, vivente in Maria, vieni a vivere in noi "), sullo spirito apostolico, spirito di Gesù dato agli apostoli e ai loro successori alla Pentecoste.

Egli porta avanti questo insegnamento, ma a differenza di Bérulle, che insiste sui misteri della vita del Cristo, e di Condren, che insiste sull'immolazione, O. si sofferma sulla vita eucaristica perché l'Eucaristia offre al cristiano, sotto forma di alimento, tutti questi misteri del Cristo e gliene comunica l'efficacia. Insieme al culto di adorazione eucaristica, O. insiste sulla partecipazione alla vita di Dio che si comunica nell'umanità del Cristo. In questo modo si partecipa " principalmente alla sua sovrana religione verso il Padre, alla sua carità verso il prossimo, all'annientamento e alla irriconciliabile opposizione al peccato " (Pietas Seminarii S. Sulpitii, a. IV).

Egli prega ed agisce molto per la santità dei sacerdoti. Ha ricevuto da Gesù questa vocazione: " Io voglio che tu viva in una contemplazione perpetua e che porti la contemplazione nel sacerdozio " (Mémoires 7, 290).

Il sacerdote è considerato il mediatore perché i fedeli possano raggiungere la vita mistica. Infatti, il sacerdote deve produrre Gesù Cristo, dare lo Spirito Santo alla Chiesa e santificare i fedeli; in questo modo, il sacerdote genera il Figlio nei fedeli, " la produzione che fa il sacerdote di Gesù Cristo è la continuazione della generazione gloriosa di Gesù, il giorno della sua risurrezione " (Traité des saints Ordres, p.3 c.2.).

Note: 1 Mystici in toto I. P. art. 1, c. XXX.

Bibl. Opere: Catéchisme chrétien e la Journée chrétienne, Paris 1954; Introduction à la vie et aux vertus chrétiennes et Pietas Seminarii, Paris 1954; Le Traité des Saints Ordres (1676) comparé aux écrits authentiques de Jean-Jacques Olier (1657), Paris 1984; Le Lettres, rieditate nel 1935 da E. Levesque (2 voll., Gigord, Paris), saranno oggetto d'una prossima ristampa; J.J. Olier, Sainteté chrétienne: textes choisis par Gilles Chaillot, Paris 1992. Studi: F. Antolín Rodríguez, s.v., in DES II, 1750-52; R. Deville, La scuola francese di spiritualità, Cinisello Balsamo (MI) 1990, 71-89; M. Dupuy, Se laisser à l'Esprit. Itinéraire spirituel de Jean-Jacques Olier, Paris 1982; J.-E. Ménard, Les dons du Saint-Esprit chez Monsieur Olier, Montréal 1951; I. Noye, s.v., in DIP VI, 708-711; I. Noye - M. Dupuy, s.v., in DSAM XI, 737-751.

R. Deville

ORGOGLIO. (inizio)

I. Il termine. Nel linguaggio corrente l'o. viene identificato con la superbia assumendo una connotazione etica particolarmente negativa. Anche il CCC fa sua tale prospettiva.1

Per sé il termine non presenta necessariamente una tale connotazione negativa. Può indicare un senso forte del proprio io radicato nella consapevolezza della dignità personale o del gruppo di appartenenza. Questa stima di sé rischia però sempre di articolarsi in prospettive di accentuata distinzione e competizione o addirittura di superiorità nei riguardi degli altri.

Il corretto senso della propria dignità è una leva importante in tutto il processo di sviluppo della persona. Nell'adulto può diventare stimolo e ricerca di coerenza etica coraggiosa. Occorre, però, che sia illuminato dalla verità della persona come reciprocità che rifiuta ogni declinazione egoistica; in chiave cristiana è necessario che dica l'essere immagine filiale di Dio in Cristo, in reciprocità ancora più oblativa con tutti gli altri membri dell'unico e indivisibile Corpo mistico.

II. Nella vita quotidiana. Caratteristica precipua dell'orgoglioso (inteso in senso negativo) è l'attribuire alle proprie capacità e forze tutto ciò che di valido riesce ad operare. Dimentica il rapporto fontale con Dio e tende sempre a sminuire o addirittura a negare il contributo degli altri.

E facile, perciò, che cada nella presunzione, non avendo una giusta percezione delle proprie effettive capacità. Gli eventuali errori vengono con prontezza scaricati sugli altri. Quando questo risultasse impossibile, l'orgoglioso tenta la difesa ad oltranza con il conseguente pericolo di forzatura e di ulteriore oscuramento della stessa coscienza oppure rischia la resa incondizionata e scoraggiata.

L'orgoglioso trova particolarmente duro il riconoscersi peccatore; è difficile, perciò, che si apra all'invocazione e all'accoglienza del perdono (cf Lc 18,9-14). Un eventuale momento di incoerenza o di debolezza rischia di compromettere ogni ulteriore possibilità di cammino. Gli è arduo accettare che alla decisione per il bene non corrisponda sempre e immediatamente la piena realizzazione. Dimentica facilmente - per se stesso, ma soprattutto per gli altri - che l'uomo è un essere storico che " conosce, ama e compie il bene morale secondo tappe di crescita".2

Tende a chiudersi, interpretandola come offesa o come incomprensione, a qualsiasi critica verso di sé e del proprio operare, anche se nella forma rispettosa della correzione fraterna. L'assolutizzazione delle proprie posizioni gli rende problematico il rapporto costruttivo con la diversità degli altri. Di qui la componente di intolleranza e di aggressività anche violenta, che spesso lo caratterizza.

L'applauso e il successo gli sembrano dovuti incondizionatamente. Soffre quando non può occupare i primi posti o stare in prima pagina (cf Lc 14,7-11). Ha soprattutto difficoltà a servire, mentre rivendica per sé ogni diritto.

III. Nel cammino spirituale. Quando comincia a inoltrarsi nel cammino spirituale, l'orgoglioso, attribuendo tutto il bene a se stesso, rischia di ridurre il " mistero " del gratuito donarsi di Dio a tecnica di cui può disporre a suo piacere. L'illusione diventa, allora, forte e con essa il tentativo di imporre lo stesso cammino agli altri senza preoccuparsi della correttezza dei mezzi adoperati e senza fermarsi neppure dinanzi all'evidente loro disagio e sofferenza.

Dietro tutti questi atteggiamenti dell'orgoglioso c'è, però, sempre un desiderio di vivere, di realizzarsi, di affermarsi, che sarebbe grave errore pedagogico non cogliere e valorizzare. Il confronto sincero e approfondito con la kenosi del Cristo permetterà di aprirlo su orizzonti di maggiore autenticità, ma soprattutto gli permetterà di aprirsi al tu di Dio.

Note: 1 Cf n. 57. 2094. 2540 e l'indice analitico che raccoglie sotto la voce orgoglio anche i rimandi alla superbia; 2 FC 34.

Bibl. P. Adnès, s.v., in DSAM XI, 907-933; G. Bertram, Ybris, in GLNT XIV, 5-38; E. Güting, Orgoglio, Superbia, in DCT, 1126-1129; P. Sciadini, s.v., in DES II, 1776-1777.

S. Majorano

ORIENTE CRISTIANO. (inizio)

I. La mistica dell'O. affonda le sue radici direttamente nell'antropologia biblica e più precisamente nei versetti della Sacra Scrittura riguardanti la creazione dell'uomo, dove si evidenziano la struttura iconica del suo essere (cf Gn 1,26), il suo legame e la sua somiglianza con il prototipo, essenza dell'uomo come immagine del Demiurgo. Quando, infatti, Dio ha infuso nell'uomo l'anima lo ha voluto creare come un'immagine della propria natura (cf Sap 2,23), manifestando così il suo volto con caratteri umani. L'ha creato cioè intimamente cristiforme per stabilire con l'uomo uno stretto legame ontologico attraverso la figura di Cristo, unico volto visibile del Padre (cf Gv 12,45). A questo proposito Gregorio di Nissa rivela: " Era necessario che una qualche affinità con il divino fosse innestata nella natura umana, perché mediante questa corrispondenza avesse in sé la forza che la muove verso ciò che le è più affine. Così l'uomo, creato per il godimento dei beni divini, doveva avere qualche affinità di natura con l'Essere del quale partecipa. Poiché una delle qualità della natura divina è anche l'eternità, si richiedeva necessariamente che la costituzione della nostra natura non fosse priva neppure di questo bene, ma avesse in sé e per sé il principio dell'eternità, affinché in virtù di questa potenza innata potesse conoscere il trascendente e avesse il desiderio dell'eternità divina " (L'uomo, 56).

Quando Adamo ed Eva peccarono, la loro immagine divina si oscurò e divenne opaca, incrostata con il limo delle passioni carnali. Adamo percepì immediatamente di vivere in una nuova condizione quando Dio lo chiamò ed egli si nascose per aver scoperto la propria nudità. Infatti, solo allora, sia lui che Eva, " compresero a fatti quello che era il comandamento della carità, della verità, della sapienza, della potenza che era stato dato loro e che avevano dimenticato; e si nascosero per la vergogna, denudati della gloria che vivifica perfettamente anche gli spiriti immortali, senza la quale la vita degli spiriti è, ed è creduta, di gran lunga peggiore di molte morti " (Filocalia IV, 89). Il senso di vergogna generato dal peccato, scaturito dalla privazione della condizione edenica, è l'impulso sotterraneo dell'anima opacizzata che inizia a intraprendere la sua lotta per tornare nel mondo della luce divina. Da allora l'uomo, nell'attraversare il tempo della storia, pur vagando nell'errore e nelle tenebre interiori, non perdette mai quella tensione escatologica che gli faceva quotidianamente percepire una dimensione esistenziale del tempo in attesa della redenzione del cosmo che si sarebbe attuata con la venuta in terra di Cristo, il Figlio di Dio.

Il compimento del mistero dell'Incarnazione restaurò così nel cuore dell'uomo l'immagine divina deturpata dal peccato, dalla decomposizione della morte e lacerata dalle disillusioni delle innocenti vanità diaboliche. La nostra salvezza (s(o-)teria) è stata resa possibile, quindi, grazie a Cristo che ha assunto la natura umana unendola senza separazione e senza confusione, come stabilito dai Padri nel Concilio di Calcedonia (451), in un'unica ipostasi, facendo così risorgere l'umanità dal peccato e dalla morte, ricapitolando in se stesso tutto il senso della creazione, come sottolineano nella tradizione orientale le icone del Pantocrator. Per questo motivo, ogni cristiano risorto alla vita della grazia assume su di sé il volto di Cristo, divenendo una teofania, ossia un'icona della divinità.

II. La via dell'ascesi. Per raggiungere, però, la condizione deificata, l'O. pratica la via dell'ascesi, cioè della conversione interiore. Questo cammino, secondo quanto tramandano i Padri del deserto, prevede tre tappe: la purificazione, l'illuminazione e l'unione. Colui che vuole intraprendere il cammino della perfezione cristiana, cioè della santità, deve convertirsi interiormente attraverso la forza dell'amore scaturita dal cuore, ma la convinzione di questa necessità spirituale deve fondarsi sulla fede, virtù pratica, attraverso cui il cristiano interiorizza che nulla si deve anteporre a Cristo. La fede, infatti, dà la certezza della salvezza e della parusia, mantenendo viva la tensione escatologica verso il regno di Dio. L'asceta, prima di tutto, deve rinunciare alla propria volontà per uniformarsi a quella divina e sottomettere interamente la sua mente e il suo cuore al proprio padre spirituale attraverso il quale deve percepire la viva presenza di Cristo. Ottemperare ai consigli del padre spirituale significa obbedire a colui che egli rappresenta e rigettare la vita mondana con la morte del proprio vissuto, rinnovando su se stessi la straziante agonia del Getsemani e la passione di Cristo. Il desiderio della santità trae origine nell'asceta dalla conversione (metànoia) interiore e dalla compunzione che sorge nell'anima a causa della consapevolezza del peccato. Infatti, proprio dall'orrore per il peccato si conquistano l'umiltà e la vera contrizione da cui scaturiscono le lacrime del pentimento, fonte catartica per la nostra salvezza. Acquisire il dono dell'umiltà non significa possedere un concetto, ma un'esperienza spirituale che incarna un modo di esistere oppure di riconoscersi. L'umile è colui che in virtù della rivelazione della grazia si percepisce come l'ultimo del mondo, colui cioè che compie l'abbassamento (kénosis) del proprio essere più intimo di fronte allo splendore e alla potenza della Maestà divina. In questa umiliazione, durante lo stato metanico, l'asceta deve imitare il Maestro e per umiliarsi deve assumere la propria croce. Per questo motivo, egli deve compiere il suo pellegrinaggio nel mondo del dolore e del peccato ponendo la propria anima spoglia, e non ancora rivestita dell'abito nuziale del banchetto celeste (cf Lc 14,18-20), davanti a Dio. In questo stato ci si rende conto del timor di Dio e della paura del castigo eterno, ma il pentimento interiore fa sgorgare lacrime di purificazione dalla profondità dell'anima. Esse fecondano i pascoli del cuore trasformando l'aridità spirituale in tenerezza e la devastazione causata dal peccato in frutti maturati dalla preghiera. Il cuore diviene così ricettivo ai doni dello Spirito Santo. Per questo Isacco di Ninive (VII sec.) insegnava: " Le lacrime sono per la mente un confine tra la corporeità e la spiritualità o tra la possibilità e la purezza. Finché, infatti, questo dono non sia stato ricevuto, la fatica della pratica insiste per lui ancora sull'uomo esteriore, né egli ha percepito assolutamente neppure poco la pratica nascosta dell'uomo spirituale. Quando, invece, si inizia ad abbandonare la corporeità di questo mondo e a varcare il confine interno a questa natura visibile, subito giunge la grazia delle lacrime. Questo è l'indizio esatto dell'uscita del pensiero da questo mondo e della percezione del mondo spirituale " (Discorsi ascetici I, 279-280). Le lacrime del pentimento e dell'afflizione si trasformano così, lentamente, proprio per la consapevolezza che impongono, in lacrime di gioia, annuncio del raggiungimento dell'età adulta secondo Cristo.

III. Verso la pienezza mistica. Una volta acquisita la condizione kenotica, il monaco segna nel proprio cuore il trionfo della croce di Cristo, apre la porta dell'intelletto verso la luce abbagliante della contemplazione divina e realizza le virtù cristiane - fede, speranza e carità - che gli ridonano la perfezione, illuminando l'opacità che ottenebrava l'immagine divina primigenia. L'asceta per pervenire alla pienezza dei doni celesti, una volta abbandonato il mondo e le sue ammiccanti insidie, deve proseguire la sua lotta ancor più tenacemente contro le illusioni diaboliche che si manifestano attraverso l'agitazione della mente instabile ed incapace di scendere nel cuore. In questo stato di ascesa iniziale, il monaco deve lottare contro le immagini prodotte dal pensiero girovago, immagini che traggono origine e affondano nell'anima non ancora pienamente purificata. Tali immagini, o pensieri, ostacolano il raggiungimento della purezza del cuore, la quale può essere raggiunta solo dopo aver praticato molte virtù. Non si deve seguire il corso dei pensieri, ma lottare contro di essi, perché suscitano ogni specie di passione. Le cause che li generano sono quattro: a. il mondo, con l'uso dei sensi; b. il corpo con il suo divenire nell'ordine naturale; c. l'anima, con i pensieri e con le memorie; d. i demoni che suscitano gli sconvolgimenti interiori già detti. Finché questi quattro elementi sussistono, l'essere umano è trascinato dal movimento delle passioni. Per superare il torbido mondo passionale, l'asceta, fin dal principio del suo itinerario, ha a sua disposizione la consolazione della preghiera dell'attenzione (prosoché) che aiuta a far sì che il cuore non inciampi in alcun pensiero malvagio, fosse pure apparentemente buono. La pratica dell'attenzione serve a mantenere il cuore fisso nella preghiera di modo che essa abiti al suo interno per riscaldarlo con il fuoco dell'amore. In questo primo stadio di opposizione ai pensieri, il monaco deve pulire la propria mente e, una volta svuotatala, elevarla al di sopra degli oggetti sensibili e farla scendere nella cella del cuore attraverso la lectio divina e la preghiera interiore.

Per superare questa prima fase, occorre morire completamente al mondo e chiudersi nel silenzio rimuovendo ogni pensiero così che la mente possa congiungersi al " luogo del cuore ", dove dimorano le potenze dell'anima. Per questo motivo, i Padri sostengono che il cuore si purifica con l'astenersi da qualsiasi negozio con il mondo e che i sensi divenuti casti donano pace all'anima, perché non hanno più bisogno di lottare. Una volta superato questo stadio e acquisita la pratica dell'attenzione, il monaco s'incammina verso l'illuminazione (photismos) e il raggiungimento dell'hesychía (= esicasmo) non più con la preghiera recitativa o discorsiva, ma con quella monologica (monologhìa) che sintetizza il tutto in una " parola sola ". Così insegnava s. Giovanni Climaco: " L'amico della hesychía è quello il cui pensiero, sempre pronto, si tiene con il coraggio e intransigenza alla porta del cuore per distinguere i pensieri che sopraggiungono. Chiunque pratichi l'hesychìa con un sentimento del cuore capirà ciò che sto per dire, ma quello che è solo un bambino, non ha esperienza e lo ignora. L'esicasta dotato di conoscenza non possiede parole perché è illuminato sui suoi atti da ciò che vogliono dire le parole " (Scala del paradiso 27,3). L'asceta, una volta acquisita la pratica dell'attenzione e vanificati i subdoli attacchi diabolici provocati dalle immagini prodotte dal pensiero girovago, deve acquisire la pratica della preghiera pura, o monologica, per raggiungere pienamente la deificazione (théosis) per grazia. L'esicasta è colui che vive nella luce increata e che ha definitivamente sconfitto l'anima passionale, purificando, altresì, il proprio corpo da ogni elemento terreno e temporale. Infatti, il corpo, unitamente all'anima, partecipa della deificazione; esso per il cristiano è un vaso d'argilla (cf 2 Cor 4,6-7) che al suo interno possiede un prezioso tesoro: l'immagine divina. Per questo motivo Giovanni Climaco insegnava che il vero esicasta è colui che aspira a circoscrivere l'incorporeo in una dimora corporale (Cf Scala del paradiso, 27,7). Nell'hesychía l'asceta è morto alle sollecitazioni mondane e il silenzio interiore ridesta in lui naturalmente le potenze dell'anima attraverso cui essa si unisce a Dio e in lui rimane con stupore. In tale condizione l'anima riacquista la luminosità edenica e si unisce a colui che le è affine. Essa si ricopre totalmente di luce divina, la medesima che gli apostoli contemplarono sul Monte Tabor. Ecco, quindi, che partecipare della grazia deificante e manifestare nell'anima l'immagine splendente attraverso cui Dio si proietta in noi, significa possedere, cioè rivelare la natura cristiforme dell'uomo, come sottolineava l'apostolo Paolo: " Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me " (Gal 2,20). Questa affermazione proietta il mistero dell'Incarnazione nel cuore dell'uomo facendolo divenire cristoforo, perché la persona umana è pneumatizzata dalle energie divine che la compongono. Il cristiano, infatti, per raggiungere la perfezione deve realizzare nella propria inespugnabile interiorità il dogma fondamentale sancito dal Concilio di Calcedonia, il quale aveva posto in relazione la natura divina e quella umana di Cristo mettendo l'accento sul carattere esperienziale di questa verità: per analogia l'uomo deificato realizza in se stesso il mistero dell'Incarnazione perché l'umano e il divino si uniscono senza essere separati. L'asceta, una volta raggiunta l'effettiva condizione deificata (théosis), acquisisce realmente la percezione della luce increata grazie alle energie divine che lo possiedono.

La contemplazione (theorìa) della luce divina, secondo la tradizione dell'O., non è la visione della divinità, ma della sua gloria, in quanto, contrariamente ad ogni concezione essenzialista tipica della filosofia ellenica, Dio nella sua sostanza (ousìa) rimane totalmente trascendente, inconcepibile, invisibile e inconoscibile. Infatti, come sottolinea Gregorio Palamas, " questa luce misteriosa, inaccessibile, immateriale, increata, deificante ed eterna, questo spendore della natura divina, questa gloria della divinità, questa bellezza del regno celeste è accessibile ai sensi e nello stesso tempo li supera " (III Triade I, 22). L'esicasta, quindi, nell'unione (hen(o-)sis) divina non contempla la sostanza divina, ma le sue energie che sono la manifestazione dell'essenza, perché, come dichiara s. Basilio di Cesarea, " la certezza dell'esistenza di ogni essenza è la sua energia naturale che innalza lo spirito sino alla sua natura " (Epistola 189).

IV. Secondo la tradizione dei Padri, la contemplazione della luce taborica da parte degli apostoli ha reso partecipabile l'impartecipabile, conoscibile l'inconoscibile, accessibile l'inaccessibile, poiché essa è la manifestazione della divinità che rende l'anima purificata dall'energia divina increata. La luce contemplata dai discepoli di Gesù sul Monte Tabor ha reso così visibile Dio attraverso il volto splendente di Cristo circondato dalla sua gloria, manifestando al mondo la sua divinità, perché " Il Signore - afferma Gregorio Palamas - non è salito sul Monte Tabor, conducendo i suoi discepoli prediletti, per mostrare loro che era un uomo: per tre anni essi lo videro accanto a loro a condividere la stessa esistenza, ma piuttosto per dimostrare, come cantiamo, "che è la luce del Padre" " (III Triade I, 19). La gloria di Dio, ossia le sue energie, non sono separate da Dio, ma da lui direttamente procedono e vengono percepite sensibilmente dall'anima inondata di luce in proporzione al grado di perfezione raggiunto. Le energie divine, sono, dunque, la manifestazione dell'essenza divina da cui sono procedenti, ma sono separate da essa. Infatti, prosegue Gregorio Palamas, " esiste una realtà, fra le creature e la sovraessezialità impartecipabile, anzi non una, ma parecchie realtà, quanti sono i partecipanti. Esse non sono esistenze proprie, cioè realtà mediatrici. Sono, invece, potenze della sovraessenzialità che possiede e riassume in se stessa, in maniera unica e unificante, tutte le differenti realtà partecipabili... Queste realtà, che sono attorno a Dio, non sono l'essenza divina, ma è lui stesso l'essenza di questa realtà. Da una parte egli è l'essenza sovraessenziale, indicibile, incomprensibile e impraticabile, dall'altra, è l'essenza degli esseri, la sapienza dei sapienti, la vita dei viventi, l'entità di tutto ciò che esiste e la potenza creatrice del bello: le creature lo pensano, lo esprimono e vi partecipano. Dio è, dunque, partecipabile e impartecipabile perché è sovraessenziale, partecipabile perché possiede una energia che modella ed è fonte di perfezione per gli esseri " (Ibid. III II, 25). Una volta raggiunta la deificazione per grazia, che è il fine stesso dell'Incarnazione, il cristiano perfetto manifesta al mondo la sua struttura iconica restaurata con il volto splendente di Cristo risorto, circondato dalla sua gloria, e si manifesta come una teofania, cioè come una icona vivente della divinità. Nella condizione deificata, il cristiano partecipa interamente e sensibilmente delle energie increate, grazie al suo essere ormai pienamente trasfigurato, e riveste così l'abito nuziale nuovamente lindo per apprestarsi al banchetto celeste, banchetto nel quale saremo associati al regno di Dio in qualità di figli, cioè di coeredi, perché ormai sciolti da ogni schiavitù del peccato e della morte.

Bibl. N. Cabasilas, La vita in Cristo, a cura di U. Neri, Torino 1971; R. D'Antiga, Gregorio Palamas e l'esicasmo, Cinisello Balsamo (MI) 1992; P. Evdokimov, La santità nella tradizione della Chiesa ortodossa, Fossano (CN) [s.d.]; Id., La novità dello Spirito. Studi di spiritualità, Milano 1979; Filocalia, I-IV, a cura di M.B. Artioli e M.F. Lovato, Torino 1982-1987; Gregorio di Nissa, L'uomo, a cura di B. Salmona, Roma 1981; I. Hausser, Solitudine e vita contemplativa secondo l'esicasmo, Brescia 1978; Isacco di Ninive, Discorsi ascetici I, a cura di M. Gallo e P. Bettiolo, Roma 1984; V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, Bologna 1967; J. Meyendorff, Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, Torino 1976; Un monaco della Chiesa d'Oriente, La preghiera di Gesù, Brescia 1964; P. Nellas, Le Vivant divinisé, Paris 1989; G. Palamas, Défense des saints hésychastes, a cura di J. Meyendorff, Louvain 1973; M. Paparozzi, La spiritualità dell'Oriente cristiano, Roma 1981; T. Spidlík, La spiritualità dell'Oriente cristiano. Manuale sistematico, Cinisello Balsamo (MI) 1995; E. Timiadis, La spiritualità ortodossa, Brescia 1962; K. Ware, Approches de Dieu dans la tradition orthodoxe, Paris 1983.

R. D'Antiga

ORIGENE. (inizio)

I. Vita e opere. Nell'anno 202 l'imperatore Settimio Severo ( 211) ordina una persecuzione contro i cristiani di Alessandria. Una delle vittime, Leonida, secondo lo storico Eusebio ( 340), è il padre di O. che nella Chiesa alessandrina si occupa della formazione dei catecumeni. La madre di O., purtroppo, resta anonima. O. nasce verso il 185. E il maggiore di sette fratelli. Segue gli studi corrispondenti alla sua età, ma allo stesso tempo studia fanaticamente la Bibbia. La sua famiglia sembra essere stata abbastanza abbiente. Mentre molti cristiani rimangono vittime della persecuzione, O. con la impetuosità di adolescente vuole raggiungere il padre nel martirio, ma la madre nasconde i suoi vestiti per obbligarlo a rimanere a casa. In questo clima, non c'è chi si occupi dell'insegnamento cristiano perciò, a diciotto anni, O. è nominato capo dell'istruzione religiosa dal suo vescovo Demetrio ( 232). Inizia, allora, una vita fortemente ascetica che lo porta perfino all'evirazione per farsi " eunuco per il regno ". Viaggia molto ed è invitato dai vescovi di Gerusalemme e Cesarea, Alessandro ( 250) e Teoctisto ( 260) a commentare la Bibbia benché sia un laico.

In Palestina gli sono conferiti gli ordini sacri, ma, insieme ad altri vescovi, Demetrio, il suo vescovo, si oppone e gli toglie l'abito sacerdotale. Questo provvedimento è confermato da un Sinodo romano. In seguito, si stabilisce a Cesarea dove s'impegna nell'insegnamento della Bibbia e nell'ufficio della Parola divina. Nel suo ringraziamento, Gregorio Taumaturgo ( 270), un allievo d'O., ci descrive il maestro dedito allo stesso ascetismo del primo periodo.

La scuola d'O. è soprattutto una scuola di vita interiore: il suo insegnamento mira esclusivamente al progresso spirituale dell'uomo. La vastità dell'opera di O. è impressionante.2 Il suo insegnamento, sotto molti aspetti, è molto innovativo rispetto ai dati della tradizione.

Intanto inizia un'altra persecuzione ed O. è imprigionato, torturato e rinchiuso in una prigione. Sopravvive, ma non molto tempo dopo muore, a sessantanove anni, verso il 254.

Anche dopo la morte, O. è molto contestato. La controversia origeniana si protrarrà dalla prima metà del III secolo fino alla sua condanna definitiva nel Concilio costantinopolitano del 553. Il Simonetti ritrova il significato più profondo dell'intera vicenda " nell'aspirazione a vivere un ideale elitario all'interno di una società in via di progressiva massificazione e livellamento tali da non consentire altra distinzione se non quella di chierici e laici, e nell'illusione di poter disporre di un libero spazio per l'esercizio intellettuale all'interno di un sistema per molteplici versi portato ad una sempre crescente intolleranza ".3

II. Dottrina mistica. L'onestà intellettuale di O., nella sua speculazione filosofica e teologica, trova la sua radice ultima nella sua ispirazione fondamentalmente mistica. Si tratta di un'interiorizzazione graduale delle qualità di Dio, un unico processo mai finito di raccoglimento della vita divina a tutti i livelli dell'esistenza umana. L'uomo spirituale sa di essere una forma che si veste progressivamente della forma di Dio. Solo questo origina la nascita del suo essere vero e proprio. Nessun uomo raggiunge quel mistero se non attraverso una conoscenza mistica che non può mai essere tradotta in concetti razionali o ragionamenti sistematici. Se leggiamo O. da questa prospettiva comprendiamo perché la sua speculazione ritorni continuamente su se stessa: egli precisa, completa, smentisce, si contraddice. Per così dire, in un modo fenomenologico ante litteram, egli tergiversa il mistero e gradualmente il lettore scopre un processo spirituale descritto come una trasformazione a spirale che comincia dall'uomo vecchio e si sviluppa verso l'uomo nuovo. L'antropologia origeniana, perciò, ci mostra l'uomo soprattutto nelle sue propensioni. O. parla delle inclinazioni umane, delle tendenze, delle aspirazioni ultime dell'uomo. Ne descrive la crescita spirituale e la trasformazione verso l'immagine e somiglianza di Dio, verso il Figlio del medesimo, verso l'amante di Cristo. Ci dipinge una spiritualizzazione graduale dell'essere umano nella sua totalità. Un'evoluzione spirituale non solo nel contesto della partecipazione allo spirito, ma anche nella prospettiva del rapporto tra l'uomo, da una parte, con il Padre e il Figlio, dall'altra. Nel contesto del rapporto con il Padre prevale il tema dell'adozione divina: lo sviluppo del seme fino a figlio di Dio; nel contesto del rapporto con il Figlio, invece, prevale il tema del movimento verso l'immagine di Dio, da una parte, e la trasformazione di quest'immagine verso la somiglianza di Dio, dall'altra parte. Tutto questo viene caratterizzato da un movimento incessante, un'inquietudine senza riposo dell'uomo. Questi si muove ed è mosso, si trasforma e viene trasformato. O. spiega la genesi dell'uomo in un modo ipotetico, come una negazione dell'amore divino o come una negazione della visione di Dio in una vita precedente. In seguito a questo fatto, O. pone la caduta verticale dell'anima nel mondo attuale. Per questo motivo, in ogni uomo esistono simultaneamente due uomini: l'uomo prima della caduta e l'uomo dopo la caduta; l'uomo di sopra e l'uomo di quaggiù; l'uomo interiore e l'uomo esteriore. Questi due non significano altro che due inclinazioni, una positiva, l'altra negativa.

Nel contesto del progresso spirituale, O. usa soprattutto il termine " corpo " con un significato prevalentemente cognitivo; nel contesto del combattimento spirituale, invece, usa il termine " carne " con un significato prevalentemente etico-ascetico. Alludendo ad una conoscenza progressiva di Dio, O. parla spesso di una dialettica tra corpo e anima, lettera e spirito, ombra e realtà, figura e verità, signum e significatum, res e verbum. Queste polarità non sono contrarie, non si oppongono fra loro. L'idea centrale è la trasmutazione, lo sviluppo della fede nella conoscenza di Dio. Nel contesto del combattimento spirituale, invece, c'è un antagonismo irriducibile nell'essere umano: il combattimento tra carne e spirito per la santità dell'uomo. Anche se la santità della creatura umana, così come la sua conoscenza, non tocca mai la perfezione quaggiù, O. insiste sulla partecipazione attuale a quella vita divina tanto sperata che viene offerta dallo Spirito. Nella storia umana individuale tale Spirito rimanda ad una presenza attiva di Dio nel fondo umano, cioè alla trascendenza dell'uomo sopra di sé.

Quanto detto fin qui significa che il peccato, in definitiva, non è altro che la sospensione del dinamismo nell'anima umana del suo movimento verso Dio. E il peccato contro di sé, poiché distrugge la persona. L'anima umana, fin dalla creazione, è destinata ad oltrepassare se stessa per andare verso il suo Dio. E immagine di Dio, il che vuol dire che non " è " se non si trascende. L'anima umana non può essere compresa se non nella sua inquietudine trascendentale. La rappresentazione più idonea per esprimere questo movimento è quella della fonte d'acqua viva per la vita eterna. E, in altri termini, un ascendere che simultaneamente significa aver sete. L'anima umana, per natura, corre verso la sua origine, come la sposa verso il suo sposo. Quest'estasi, quest'essere fuori di sé, in realtà, non è altro che un viaggio dentro di sé verso l'origine. O. usa molte immagini per descrivere questo movimento: l'immagine di Dio o quella del seme che significa l'assimilazione perfetta al Figlio di Dio, imitazione perfetta dell'anima di Cristo. O. parla del progresso dell'uomo nel suo rapporto con il Cristo mediante l'unione mistica come descritta nel Cantico dei Cantici o illustrata con il tema della nascita di Cristo e la sua crescita nell'anima dell'uomo. L'Incarnazione di Cristo mira fondamentalmente alla deificazione della natura umana.

La tematica dell'imitazione e della sequela di Cristo da una parte è connessa con il simbolismo del Verbo che cresce nel credente e dall'altra con l'esercizio delle virtù. Il tema dell'immagine accenna ad una condizione naturale dell'uomo, la tematica dell'imitazione, invece, mette in evidenza l'attività propria del medesimo. Tutto il simbolismo del rapporto amoroso tra sposo e sposa, d'altra parte, può essere concepito come un seguire il Cristo: egli è lo sposo che chiama la sua amante verso di sé. Tante altre tematiche vengono proposte da O. sotto forma di illustrazioni del medesimo movimento progressivo. Accenniamo solo ad alcune: la partecipazione progressiva al Verbo viene espressa mediante l'immagine della realizzazione degli aspetti diversi di Cristo nell'anima umana; l'economia divina dispone di tutto un simbolismo cosmologico che mira ad abituare progressivamente la debolezza umana alla luce della visione mistica; Cristo, colpito e crocifisso, viene dipinto come la sorgente d'acqua viva. Questa tensione ambigua del progresso e del combattimento tra il corpo o la carne, da una parte, e lo spirito, dall'altra, è determinante per ogni dinamismo spirituale che viene rappresentato per mezzo del simbolismo origeniano. In quest'ultimo compare sempre un parallelismo spesso non antitetico tra l'uomo interiore e l'uomo esteriore; tra cibo carnale e cibo spirituale, tra tenebre e luce; tra lettera e spirito della Scrittura; tra il raccogliersi e l'estasi, tra l'immanenza e la trascendenza. Lo stesso dinamismo si può osservare nell'ascensione dell'anima.

Come si è accennato sopra, O. parla del combattimento nel contesto della santità, mentre parla del progresso spirituale nel contesto della conoscenza. Più precisamente, egli distingue la conoscenza di Dio dalla fede. Ciò vuol dire che suddivide la conoscenza di Dio in una conoscenza dei molti, da un lato, e una conoscenza dei pochi, dall'altro; la conoscenza per i Dodici e la conoscenza per gli altri; una conoscenza dei semplici ed una conoscenza dei perfetti; una conoscenza a livello della lettera ed una conoscenza a livello dello spirito; una conoscenza del mondo visibile ed una conoscenza del mondo invisibile. Ma il rapporto fra le varie conoscenze non è solamente antitetico: continua a permanere qui la stessa ambiguità. Quaggiù, difatti, l'anima umana non supera mai il livello della fede, ragion per cui fede e conoscenza risultano sinonimi. L'uomo non potrà mai raggiungere quaggiù una conoscenza perfetta di Dio. Per questo, O. insiste sull'impossibilità da parte dell'uomo di tendere con le sole sue forze alla divinizzazione. E la sua partecipazione naturale a Dio che lo trasforma progressivamente in Dio. Ma l'uomo-dio non è Dio perché la sua divinità è sempre proveniente e dipendente dal Padre divino. L'uomo, proprio per il suo essere uomo, resta sempre debole, un dio non-dio. Di qui la preponderanza dell'iniziativa di Dio nella vita dell'uomo.

Anche se O. insiste sulla collaborazione attiva della creatura umana con il Creatore, già dal suo racconto della creazione si può arguire che è sempre Dio a fare il primo passo perché l'uomo possa tendere alla perfezione.

Note: 1 Per un'ampia bibliografia critica su Origene si veda: H. Crouzel, Bibliografie critique d'Origène. Den HaagSteenbrugge 1971 (Instrumenta Patristica VIII); Id., Bibliographie critique d'Origène, Supplement 1. Den HaagSteenbrugge 1982 (Instrumenta Patristica VIII A). Per un riassunto generale della ricerca moderna su Origene si veda: Ulrich Berner, Origenes, Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1981; 2 Studi: E. de Faye, Origène, sa vie, son oeuvre, sa pensée, Paris 1923-28; G. Bardy, Origène, Paris 1931; R. Cadiou, La jeunesse d'Origène, Paris 1935; J. Daniélou, Origène, Paris 1948; P. Nautin, Origène, sa vie et son oeuvre, Paris 1977; H. Crouzel, Origène, Roma 1985, 17-66. 3 M. Simonetti, La controversia origeniana, in Aug 26 (1986), 7-31.

Bibl. H.U. von Balthasar, Le Mystérion d'Origène, in RSR 26 (1936), 513-562; F. Bertrand, Mystique de Jésus chez Origène, Paris 19512; S. Bettencourt, Doctrina ascetica Origenis, Roma 1945; H. Crouzel, s.v., in DSAM II, 933-961; Id., L'anthropologie d'Origène dans la perspective du combat spirituel, in RAM 31 (1955), 364-385; Id., Théologie de l'image de Dieu chez Origène, Toulouse 1956; Id., Origène et la connaissance mystique, Bruges 1961; Id., La spiritualité d'Origène, in Carmel, 45 (1962), 204-216; J. Daniélou, Les sources bibliques de la mystique d'Origène, in RAM 23 (1947), 126-141; M. Harl, Origène et la fonction révélatrice du Verbe incarné, Paris 1958; H. Jonas, Die Origenistische Spekulation und die Mystik, in Theologische Zeitschrift, 5 (1949), 24-45; J. Lanczkowski, s.v., in WMy, 389-390; J. Lebreton, Les degrés de la connaissance religieuse d'après Origène, in RSR 12 (1922), 265-296; Id., La source et le caractère de la mystique d'Origène, in Analecta Bollandiana, 67 (1949), 55-62; A. Lieske, Die Theologie der Logosmystik bei Origenes, Münster 1938; H. de Lubac, Histoire et ésprit. L'intelligence de l'Écriture d'après Origène, Paris 1950; K. Rahner, Le début d'une doctrine des cinq sens spirituels chez Origène, in RAM 13 (1932), 113-145; M. Rutten, Om mijn oorsprong vechtend. Origenes ofwel het optimisme van een mysticus, Kok-Altiora 1991; M. Simonetti, s.v., in La Mistica I, 257-280; W. Völker, Das Vollkommenheitsideal des Origines. Eine Untersuchung zur Geschichte der Frömmigkeit und zu den Anfängen christlicher Mystik, Tübingen 1931.

M. Rutten

OSSESSIONE E NEVROSI OSSESSIVO-COATTA. (inizio)

I. Nozione. Caratteristica temperamentale improntata alla precisione ed alla meticolosità. Nelle forme psicopatologiche, è una sindrome appartenente al gruppo delle nevrosi, caratterizzata da una limitazione della libertà del pensiero e da tutta una serie di ripetizione di atti (coazioni).

Tutti gli individui possono sperimentare dette piccole ossessioni quotidiane: tipico, a tal proposito, è un pensiero, una canzone che non ci lascia per tutta la giornata; così tutti gli individui, cosiddetti normali, possono sperimentare dubbi più o meno motivati e persistenti o rivolgersi ad atti e gesti superstiziosi nella speranza che questi possano produrre un qualche effetto sulla propria esistenza. D'altro canto, tratti di personalità quali l'amore per l'ordine e la perfezione, la coscienziosità, il forte senso del dovere, la scrupolosità, sono tipici di molte persone che non mostrano particolari segni psicopatologici, al contrario, per la loro serietà vengono stimate e ritenute, in particolare nel mondo lavorativo, come " persone affidabili ". Altrettanto si può dire per caratteristiche quali l'insicurezza, la paura di fronte alle responsabilità, il bisogno di completezza. Tutti questi tratti e queste forme comportamentali che si osservano nel comportamento normale sono tipici della nevrosi ossessivo-compulsiva, ma con la differenza che in questa vengono portati all'eccesso e producono ansia e forti limitazioni personali. Tutto ciò porta a concludere che tra il comportamento ossessivo, il carattere ossessivo e la nevrosi ossessivo-compulsiva esiste un continuum, in cui il limite tra normalità e patologia è segnato da differenze quantitative piuttosto che qualitative. E, infatti, generalmente accettato che l'ossessività patologica si sviluppi sulla base dei tratti predisponenti del carattere ossessivo, la cui genesi deve intendersi prevalentemente ambientale e non organica, in cui l'ansia gioca un ruolo fondamentale.

II. Aspetto clinico. Nella nevrosi ossessiva comunemente si osserva come un pensiero, una paura, un dubbio invadano lentamente l'intera coscienza del soggetto che, seppur ne riconosca l'assurdità, non riesce a disfarsene in nessun modo, anzi egli comincia ad ingaggiare una vera e propria lotta senza tregua contro i suoi pensieri. Tali pensieri possono riguardare domande metafisiche che per la loro pretesa non possono trovare alcuna risposta; dubbi che si possono presentare in forme elementari (ritornare più volte a controllare se si è chiusa la valvola del gas) o complesse (circa il senso stesso dell'esistenza); paure dello sporco, delle malattie, ecc.; impulsi ossessivi come la tentazione, che non viene mai attuata, di far del male a qualcuno dei propri cari. A questa pressione interna l'ossessivo risponde con una contropressione (V. Frankl, 1978), ovvero con una lotta che si struttura in una serie di rituali: processi cognitivi come conteggi, ripetizione di formule che il soggetto reputa " magiche ", preghiere; oppure azioni come il continuo lavarsi le mani per sconfiggere lo sporco ed evitare infezioni e malattie. Tutti i rituali hanno come unico scopo la riduzione dell'ansia, riduzione che difficilmente si realizza. In tal senso, l'ossessivo si sente costretto, da una parte, a intensificare e perfezionare i propri rituali, d'altra parte, ad evitare le situazioni che per lui possono essere pericolose. In questo modo, le situazioni temute vengono generalizzate. Infine, il soggetto cercherà la rassicurazione, specie nel dubbio, da parte di parenti e amici, i quali non possono essere di alcun aiuto poiché le richieste del nevrotico si presentano sempre eccessive. Egli non vuole essere semplicemente rassicurato, esige " la sicurezza al cento per cento ". La nevrosi ossessiva insorge in genere in età giovanile, a volte attraverso un processo in cui i rituali divengono evidenti in maniera molto lenta e si presentano come esacerbazioni di abitudini familiari, altre volte dopo un evento traumatizzante.

III. Ipotesi causali. Le prime rilevazioni sulla natura psicologica delle o. sono state prodotte dalla psicanalisi (S. Freud, 1917) Sono quattro i punti fondamentali della concezione psicanalitica delle o.: a. anche se apparentemente assurdi, i sintomi hanno un loro senso che b. è sconosciuto al paziente poiché è un prodotto di processi psichici inconsci, che c. scompaiono quando vengono, attraverso la terapia psicoanalitica, resi consci; d. nella nevrosi ossessiva il fattore predisponente è da ricondurre ad una struttura della personalità sadico-anale.

Nell'impostazione comportamentistica (E. Sanavio, 1979) è centrale il concetto di riduzione dell'ansia, secondo il quale quando un soggetto sperimenta questo stato di disagio dà luogo a tutta una serie di attività tendenti alla sua diminuzione. Quelle attività che, forse in modo del tutto casuale, ottengono questo risultato vengono rinforzate in questo modo. Tali attività possono essere le più diverse: lavarsi le mani, guardare sotto il letto, ecc. In questo modo, la nevrosi ossessiva risulterebbe da processi di apprendimento.

G. Froggio

IV. Nell'esperienza religiosa. Vi possono essere anche altre ipotesi non-cliniche dell'o., come quelle religiose, che vorrebbero attribuire il comportamento coatto ad una volontà diversa da quella del soggetto stesso, come se il soggetto fosse vittima di una cosiddetta " presenza " nell'interno della sua persona che prende possesso della sua libertà e che lo costringe (componente coattiva) a fare ripetutamente (componente ossessiva) ciò che non desidererebbe (componente dissociativa). Questa potrebbe essere la struttura-base psicologica di ciò che viene denominata come " possessione diabolica ". Con questo non si vuole affermare che non esiste una entità non-materiale dominata e dominante secondo il principio del male come forza che contrasta l'amore. Quest'ultima interpretazione trova riscontro in alcune forme religiose impostate prevalentemente sulla scissione e contrapposizione tra bene e male, come forze incontrollabili con conseguente deresponsabilizzazione. Una religiosità sana, invece, prevede un equilibrio tra la propria responsabilità e la libertà personale nel quale non c'è posto per la colpa quando non si è responsabili e si è responsabili nella misura in cui si è liberi. Questo è l'equilibrio che manca alla personalità scrupolosa ed è, per questo, che ha bisogno di continui riti purificatori per acquietare l'ansia che proviene dalla sua colpa. Il sacramento della penitenza diventa un surrogato di un ansiolitico che allontana, ma solo per un po', la minaccia del giudizio, della condanna e della punizione.

Sarebbe un errore gravissimo confondere o identificare il nevrotico ossessivo con la persona devota e pia dall'assidua pratica religiosa. I danni di questa confusione saranno di sicuro più gravi se questo errore viene commesso da ministri del culto o da responsabili per il discernimento vocazionale.

Nell'ambito della spiritualità dovrebbero esserci criteri molto chiari nel valutare la personalità di santi, mistici e asceti. Un criterio fondamentale è quello della " libertà ". Una delle più grandi differenze tra il nevrotico ossessivo e il mistico autentico è il senso di libertà interiore: per il mistico la libertà non viene data da un rito; per il nevrotico, sì. La persona autenticamente religiosa non è dipendente da una particolare formula per sentirsi libera. Per l'ossessivo se una cosa non viene fatta esattamente come dovrebbe (o come crede che dovrebbe) essere fatta non si sentirà libero.

Inoltre, per l'ossessivo è molto importante che un rito, comunque sia, venga fatto; non importa con quale disposizione d'animo, ma deve essere fatto. Per la persona religiosa tutto va fatto per amore e non per dovere o costrizione e la disposizione d'animo è molto più importante che il semplice fare o non-fare un qualcosa o un rito.

Infine, la quantità di volte, ossia, la ripetitività o la frequenza ha un valore pressoché assoluto per l'ossessivo. Per una sana religiosità la ripetitività ha senso solo in un contesto d'amore: chi ama ha bisogno di esprimere ripetutamente il suo affetto, pur sapendo che la ripetizione non assomma né moltiplica l'affetto. La ripetitività del nevrotico ossessivo tende ad assicurarsi la non punibilità o la non colpevolezza e questo non è liberante. Un'altra differenza, infatti, è l'estrema insicurezza del nevrotico ossessivo contrapposta alla fiduciosa sicurezza del religioso sano.

In psicologia della religione è tutt'altro che facile differenziare una religiosità autentica in una personalità nevrotica soprattutto di fronte ad una diagnosi multisintomatica. Per esempio, se in un soggetto oltre a quanto appena detto sulla nevrosi ossessiva si dovessero evidenziare anche dei tratti isterici eo una personalità multipla, è ovvio che potremmo avere tutti gli estremi per una apparente possessione diabolica con fenomeni apparentemente straordinari. In questi casi, è molto facile ingannarsi, quindi la prudenza e l'interdisciplinarietà devono sempre accompagnare una loro considerazione sia clinica che pastorale.

A. Pacciolla

Bibl. H.R. Beech (ed.), Obsessional States, London 1974; V.E. Frankl, Teoria e terapia delle nevrosi, Brescia 1978; S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Id., Opere, VIII, Torino 1969, 194-612; S. Rado, La nevrosi ossessiva, in S. Arieti (cura di), Manuale di psichiatria, I, Torino 1969, 339-361; I. Rodríguez, s.v., in DES II, 1793-1794; E. Sanavio, I comportamenti ossessivi e la loro terapia, Firenze 1979; R. Zavalloni, Le strutture umane della vita spirituale, Brescia 1971.

OSUNA FRANCESCO DI. (inizio)

I. Vita e opere. Nato verso il 1492 a Osuna (Siviglia), nel 1513 entra tra i frati minori dell'Osservanza. Probabilmente compie gli studi ad Alcalá, dove circolano diverse correnti di spiritualità. Nel 1523 si ritira alla Salceda, presso Alcalá, casa di ritiro (recolección) e vi rimane fino al 1526. E in questa solitudine che raggiunge alti livelli di esperienza mistica. Nel 1528, dal capitolo delle province francescane di Spagna viene nominato commissario generale delle Indie (America) e questo incarico lo porta, tra il 1532 e il 1536, a compiere viaggi all'estero (Tolosa, Lione, Parigi, Colonia, Anversa). Nel 1537 torna in Spagna, dove muore, probabilmente, nel 1540.

O. svolge una notevole attività letteraria, in particolare tra il 1527 e il 1531. La sua opera principale è costituita dai sei Abecedarios espirituales.

L'Abecedario è una forma letteraria, chiamata così per un insieme di lettere, titoli o distici con le lettere iniziali disposte in ordine alfabetico. O. costruisce i sei Abecedarios su distici alfabetici.

Altre opere sono: Gracioso convite de las gracias del Santo Sacramento del altar (1530); Norte de los estados (1531) e diversi sermoni.

L'opera più conosciuta è il Tercer Abecedario (T.A.), ritenuto il " codice della mistica spagnola originale e fondamentale " (M. Andrés Martin).

II. Dottrina mistica. O. non è un sistematico, non scrive in modo ordinato. E, quindi, difficile esporre sinteticamente la sua dottrina. Ci sono, tuttavia, dei punti e delle caratteristiche ben rilevabili.

La prima condizione per giungere all'unione con Dio è il raccoglimento (recogimiento). L'autore è evidentemente legato alla spiritualità dei recogidos che, appunto, professavano la necessità del raccoglimento per la vita mistica. Il primo trattato del T.A. è proprio quello " dell'attenzione e della vigilanza necessaria per elevarsi e unirsi a Dio in spirito e verità ", e il secondo riguarda " gli ostacoli al raccoglimento e alla vita interiore ". Persino la penitenza, che non deve mancare, " serve poco, se non vi si unisce lo spirito di raccoglimento e l'orazione " (t.1,1). Quindi " in quanto a voi, fratello mio, se non volete errare e volete camminare con sicurezza nella vita spirituale, cercate Dio nel vostro cuore, non uscite da voi stesso, perché Dio è più in voi, nell'interno dell'anima vostra, di quel che non vi siate voi stesso " (Ibid.).

Nel raccoglimento e nell'orazione si deve progredire in modo particolare in due cose: la conoscenza di se stessi e la conoscenza dei misteri di Cristo. Alla conoscenza di se stessi è dedicato soprattutto il primo Abecedario; alla meditazione dei misteri, specialmente della passione di Cristo, il primo, il secondo e il sesto. Per quanto riguarda la mediazione dell'umanità di Cristo, nel prologo del T.A. è detto chiaramente: " Un altro errore consiste nel volersi dare alla contemplazione, mettendo da parte la santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo... Mentre la Vergine Maria godeva della presenza del suo divin Figlio... era rapita d'amore per Dio ".

E l'amore è la scienza teologica nascosta che " Cristo si riservò l'ufficio d'insegnare in segreto nei cuori... arte di amore, perché solo con l'amore si raggiunge e con essa, più che con qualsasi altra arte o impegno, si accresce l'amore " (T.A. 6,2).

Il tema dell'amore è predominante nelle opere dell'O.: l'Abecedario cuarto porta il titolo Ley de amor santo ed è tutto dedicato allo studio dell'amore " che esce dall'altissimo cielo della Divinità e allo stesso cielo ritorna " (c.1).

Con l'amore si arriva così all'unione mistica con Dio. La nostra intelligenza non può conoscere Dio che in misura ristretta, perciò bisogna " conoscerlo per un'altra via ", quella dell'amore appunto, " che ci fa uscire da noi stessi per collocarci e farci dimorare in ciò che amiamo, è esso che penetra nel segreto più profondo, lasciando la conoscenza al di fuori, nelle creature " (T.A. 21,3). Allora l'anima " non comprendendo, ma gustando pensa di raggiungere il riposo! " (T.A. 16,4). Questo avviene " nel profondo del cuore dell'uomo che deve restare oscuro, cioè privo del conoscere umano, perché così, stando nelle tenebre, venga lo Spirito di Dio su di essa, sopra le acque dei suoi desideri, a dire che sia fatta la luce divina " (T.A. 6,2).

Che il Tercer abecedario sia un'opera valida di iniziazione all'orazione mistica ce lo dice il ruolo che svolse nella vita della grande Teresa d'Avila. Suo padre l'aveva mandata, per guarire dalle sue gravi infermità, presso uno zio: " Quando vi andai - narra - quel mio zio... mi donò un libro intitolato Terzo Abbecedario che trattava dell'orazione di raccoglimento. Sebbene in quel primo anno io avessi letto parecchi libri buoni, edificanti... tuttavia non avevo ancora imparato il modo di procedere nell'orazione né quello di raccogliermi. Il libro datomi dallo zio, perciò, mi fu assai gradito, e mi proposi di seguire quel metodo con tutto l'impegno. Per il dono delle lacrime di cui il Signore mi aveva già favorita e poiché leggevo molto volentieri quel libro, cominciai a passare tratti di tempo nella solitudine, a confessarmi più spesso e avviarmi per quella via che il cielo mi insegnava, ritenendolo come mia guida ".1

Note: 1 Vita 4, 7.

Bibl. Opere: Abecedario cuarto, a cura di A. di Madrid, Madrid 1948; Tercer Abecedario Espiritual, a cura di M. Andrés Martin, Madrid 1972; Místicos Franciscanos Españoles, t.I, Madrid 1948; cf in tr. it. Frate Francesco da Osuna, Via alla mistica. Dalla terza parte dell'Abecedario spirituale, a cura di G.M. Bertini, Brescia 1933. Studi: M. Andrés Martín, s.v., in DSAM XI, 1037-1051; H.D. Egan, Francesco di Osuna, in Id., I mistici e la mistica, Città del Vaticano 1995, 459-470; P. Groult, Les mystiques des Pays-Bas et la littérature espagnole du 16e siècle, Louvain 1927; J. Lanczkowski, s.v., in WMy, 165; E. Pacho, s.v., in DES II, 1794-1796; H. Prien, Francisco d'Osuna. Mystik und Rechfertigung, Hamburg 1967; F. de Ros, Un maître de sainte Thérèse, le P. François d'Osuna, Paris 1937 e 1946.

U. Occhialini

OZIO. (inizio)

I. Il termine o. designa, di per sé, un concetto prevalentemente negativo, che si limita a escludere il lavoro e le preoccupazioni economiche ad esso connesse, senza dire ancora nulla sulla utilizzazione del tempo che così viene liberato: dal punto di vista etico è, quindi, un concetto ambivalente: può designare, come di fatto avviene oggi, in una cultura che privilegia il lavoro e l'efficienza produttiva, il rifiuto a svolgere la propria parte nella creazione del benessere economico e nel servizio della comunità. Chi non lavora sfrutta il lavoro degli altri.

Ma il termine otium, insieme con i sinonimi quies e vacatio ha designato a lungo nell'antichità (e designa tuttora in certi ambienti e in certe culture, meno contagiate dalla ossessione efficientistica) qualcosa di meno dispregiativo, vale a dire il tempo in cui, lasciate le preoccupazioni utilitaristiche, ci si dedica all'attività più propriamente umana, quella del pensiero, dell'arte, della vita contemplativa: Soli omnium otiosi sunt - diceva Seneca ( 41 ca.) - qui sapientiae vacant.1 Il privilegiare questo significato positivo è continuato anche all'interno dell'universo linguistico e concettuale cristiano per tutto il primo Medioevo. Esso venne utilizzato per designare il tempo dedicato alla preghiera e alla contemplazione: s. Agostino parla di christianae vitae otium.2 Condizione della positività di quest'o. è naturalmente il fatto che esso sia non iners vacatio, ma ricerca e ritrovamento della verità. A una tale forma di o. era dedicata la vita monacale. Ma la generale rivalutazione del lavoro umile, operata in genere dal cristianesimo, e l'urgenza di una carità attiva nel sovvenire ai bisogni del prossimo e, a maggior ragione, premurosa di non pesare sugli altri, non poteva non accostare ai valori di un simile o. quelli diversi, ma complementari, di una operosità ispirata alla carità. L'ora et labora di s. Benedetto consacrerà in modo definitivo questa equilibrata complementarità tra l'o. santo e l'operosità caritatevole.

II. Pericoli dell'o. Ma, soprattutto nell'Occidente, man mano che ci si addentra nel Medioevo, crescono tra gli scrittori ecclesiastici le voci che mettono in guardia contro i pericoli morali di un o. vuoto e vizioso. La letteratura spirituale denuncerà l'otium iners come sentina di tutte le tentazioni e di tutti i pensieri cattivi e inutili. Con la nascita di nuovi Ordini religiosi, istituzionalmente dedicati alla predicazione al popolo, all'assunzione di responsabilità pastorali e allo studio e alla ricerca scientifica nel campo della sacra doctrina, il termine o. viene sempre più usato quasi esclusivamente nel significato negativo di otiositas, una oziosità ispirata alla pigrizia e vista come occasione al facile dilagare del vizio, soprattutto nel campo della castità. Al contrario, il lavoro serio e la fuga dall'o. vengono ad assumere il valore di un esercizio ascetico e vengono visti come remedium castitatis contra luxuriam.3

III. Nell'ambito della mistica. Ma non cade ancora del tutto l'idea che quello di vacare Deo resti il compito e il " lavoro " principale dei religiosi e che il servizio ai fratelli sia quello di testimoniare la presenza e il primato di Dio nella vita umana: ogni altro servizio al prossimo sarà solo affrontato nella misura dell'impellenza dei loro bisogni: essi si consacrano infatti alla perfezione della carità, ad quam quidem principaliter pertinet Dei dilectio secundario autem dilectio proximi. Et ideo religiosi praecipue et propter se debent intendere ad hoc quod Deo vacent. Si autem necessitas proximi immineat, eorum negotia ex caritate agere debent.4 Sarà solo nell'epoca moderna, in concomitanza con il sorgere dell'economia mercantile prima e capitalista poi e con l'affermarsi della rivoluzione industriale, quindi all'interno di una cultura consacrata al culto dell'attivismo e dell'efficienza materiale, che la parola o. conserverà esclusivamente il suo significato negativo di " padre di tutti i vizi ".

Nella Chiesa, le Congregazioni di vita attiva saranno il segno dell'affermarsi di un modello di santità che, sia pure ispirandosi all'unione con Dio e lasciando ancora largo spazio alla preghiera, prova la sua autenticità spendendosi totalmente in un lavoro incessante per il bene materiale e spirituale del prossimo. L'etica del lavoro e dell'efficienza che ha dominato tutto il panorama culturale dell'epoca moderna rivela tutte le sue ambiguità e la sua tendenziale disumanità; la sua crisi rilancia, quindi, l'idea che al di là dell'otium iners, giustamente considerato male in se stesso e occasione di molti mali, vada riscoperta la necessità di una vacatio riempita non solo di ricerca di Dio, ma anche di perseguimento di una più autentica autorealizzazione umana, attraverso le attività non utilitaristiche dell'arte, del pensiero, dell'espressività e della comunicazione interpersonale e sociale. Il " tempo libero " è diventato, e diventa sempre più, almeno nelle società industriali avanzate, un problema tipico del nostro tempo e ripropone l'urgenza di riscoprire, sia pure in forme nuove, la saggezza e la produttività umana del vacare sapientiae come premessa e come strada percorribile per arrivare al vacare Deo.

Note: 1 De brevitate vitae, 12,1-2; 2 Retract., I, 11; 3 S. Tommaso d'Aquino, Opusc., 18, c. 19; 4 STh I-I, q. 187, a. 2.

Bibl. A. Lipari, s.v., in DES II, 1797-1800; H.J. Sieben, Quies-otium, in DSAM XII2, 2746-2756; K.V. Truhlar, Il lavoro cristiano. Per una teologia del lavoro, Roma 1966; S. Wyszinski, La spiritualità del lavoro umano, Brescia 1964.

G. Gatti

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