Categoria fondamentale della metafisica aristotelica e tomistica insieme al suo correlativo, la potenza.
In Aristotele (e anche in S. Tommaso) atto designa tutto ciò che è perfezione, completezza, realizzazione, definizione, mentre la potenza indica ciò che è imperfetto, incompleto, indefinito, e pertanto suscettibile di perfezionamento, di definizione, di realizzazione. Nelle cose materiali l’atto non si identifica mai con l’essere stesso della cosa, ma soltanto con la forma; mentre la potenza si identifica con la materia. Perciò atto e potenza non sono enti, ma princìpi primi dell’ente: l’atto e il principio attivo e la potenza il principio passivo. Aristotele distingue due gradi dell’atto, che chiama primo e secondo. Il primo e la forma sostanziale di una cosa; il secondo è l’esercizio di un’operazione.
La formulazione aristotelica della dottrina dell’atto e della potenza, anche se oltrepassa i confini della materia e della forma da cui è ricavata, di fatto, però, risente fortemente del contesto ermeneutico da cui è stata sviluppata. Ciò è evidente soprattutto quando Aristotele nega che si possa dare un atto puro infinito. Essendo principio di determinazione l’atto, secondo Aristotele, non può essere che finito. Ciò è vero, però, soltanto se l’atto viene identificato con la forma (sostanziale o accidentale) e finché l’indagine non oltrepassa i confini del divenire sostanziale e accidentale, come accade per l’appunto in Aristotele.
Nelle linee fondamentali S. Tommaso fa sua la dottrina aristotelica dell’atto, ma la modifica su qualche punto di capitale importanza.
1. S. Tommaso assegna il ruolo di atto principale e primario non alla forma, bensì all’essere: "L’essere è l’attualità di ogni atto e quindi la perfezione d'ogni perfezione" (De Pot., q. 7, a. 2, ad 9). "Fra tutte le cose l’essere è la più perfetta". (ibid.), "L’essere sostanziale di una cosa non è un accidente (come affermava Avicenna), ma l’attualità di ogni forma esistente, sia che si tratti di una forma dotata di materia oppure no" (Quodl., XII, q. 5, a. 1).
2. Elevando l’essere (esse) allo statuto di perfezione assoluta e suprema, che conferisce realtà a qualsiasi altra perfezione (compreso il conoscere, il volere, il potere ecc.), S. Tommaso può ampliare il quadro dei rapporti di atto e potenza, che Aristotele aveva limitato alle coppie materia / forma, sostanza / accidenti. A queste due S. Tommaso aggiunge la coppia essenza / atto dell’essere. Infatti là dove l’essenza non coincide con l’essere stesso, come accade in Dio, che è l’esse ipsum subsistens, occorre introdurre sempre la composizione dell’essenza con l’essere: si tratta di una composizione nuova, diversa da quella di materia e forma e di sostanza e accidente, una composizione in cui l’essenza svolge il ruolo di potenza nei confronti dell’essere; infatti l’unica ragione intrinseca per cui un ente non possiede tutta la perfezione infinita dell’essere è dovuta all’essenza, che è la capacità, la potenza, che riceve tale perfezione e la limita. Questa nuova composizione, dell’essenza e dell’atto di essere (actus essendi), spiega il Dottore Angelico, è nettamente distinta dalla composizione di materia e forma. Infatti, sebbene ambedue risultino di potenza e atto, non sono affatto identiche. "Primo, perché la materia non è l’essenza (substantia) stessa della cosa, altrimenti avremmo che tutte le forme sarebbero accidentali come ritenevano gli antichi naturalisti; la materia invece è una parte dell’essenza. Secondo, perché l’essere stesso (ipsum esse) non è l’atto proprio della materia, ma della sostanza tutta intera; infatti l’essere è l’atto di ciò che si può dire che è. Ma l’essere non si dice della materia bensì del tutto (de toto). Perciò non si può dire della materia che essa sia, ma ciò che veramente esiste è la sostanza. Terzo, perché neppure la forma è l’essere (ne nelle cose materiali né in quelle immateriali) (...). Perciò, negli enti composti di materia e forma, ne la materia né la forma si possono dire essenza ed essere. Tuttavia la forma si può dire ciò per cui la cosa è, in quanto è princìpio dell'essere; ma tutta quanta la sostanza e ciò che è (quod est) e l’essere e ciò per cui la sostanza si dice ente (ipsum esse est quo substantia denominatur ens). Invece nelle sostanze intellettuali o separate, che non sono composte di materia e di forma ma nelle quali la stessa forma è sostanza sussistente, la forma è ciò che esiste; mentre l’essere è sia atto sia ciò per cui esiste la forma (ipsum esse est actus et quo est)" (C. C., II, c. 54).
3. Introducendo questa ulteriore composizione, che si spinge ancora più a monte delle composizioni di materia e forma e di sostanza e accidenti, la composizione di essenza e atto d’essere, S. Tommaso può risolvere il problema della creaturalità e finitezza degli angeli, senza compromettere la loro assoluta spiritualità e non guastandola con l’incongrua ipotesi (degli agostiniani) dell’ilemorfismo. Infatti l’essenza degli angeli non si identifica, come accade in Dio, con l’essere, ma si rapporta all’essere, che è atto, a mo’ di potenza. E questa è la sola composizione che c’è in essi, composizione che risulta dall’essenza e dall’essere, e da alcuni viene detta anche di ciò che è (quod est) e di essere (esse), oppure di ciò che è (quod est) e di ciò per cui è (quo est)" (C. G., II, c. 54; Cfr. De sub. sep., c. 1).
4) Infine, portando l’essere at massimo grado di attualità e facendo di esso l’actualitas omnium actuum, S. Tommaso può abbandonare la tesi aristotelica della finitezza dell’atto. Infatti l’atto purissimo dell’essere, che in Dio è esente da qualsiasi composizione e limitazione, poiché in Dio non può esserci alcunché di potenziale, non può non essere infinito. Ecco il ragionamento dell’Aquinate: "Infinita si dice una cosa perché non è finita (limitata). Ora, in certa maniera la materia viene limitata dalla forma in quanto la materia, prima di ricevere la forma, è in potenza a molte forme; ma dal momento che ne riceve una, da quella viene delimitata. La forma poi è limitata dalla materia, perché la forma, considerata in sé stessa, e comune a molte cose, ma dal momento in cui è ricevuta nella materia diventa forma soltanto di una determinata cosa. Se non ché la materia riceve la perfezione dalla forma che la determina, e perciò l’infinito attribuito alla materia racchiude imperfezione, perché è come una materia senza forma. La forma invece non viene perfezionata dalla materia, ma ne riceve piuttosto la restrizione della sua ampiezza illimitata; quindi l’infinito che si attribuisce alla forma non delimitata dalla materia comporta essenzialmente perfezione. Ora, come abbiamo già veduto, l’essere stesso tra tutte le cose è quanto di più formale si possa rinvenire. Quindi, siccome l’essere divino non è ricevuto in un soggetto, ma Dio è il suo proprio essere sussistente, resta provato chiaramente che Dio e infinito e perfetto" (I, q. 7, a. 1; cfr. C. C., I, c. 43; I Sent., d. 43, q. 1, a. 1).
Nella revisione tomistica della dottrina aristotelica dell’atto abbiamo modo di constatare due cose:
1) S. Tommaso non è per nulla un semplice e ingenuo ripetitore di Aristotele, ma anche quando riprende concetti e tesi dello Stagirita lo fa adeguandoli e aggiustandoli alle esigenze della sua comprensione della realtà.
2) Grazie al suo concetto intensivo dell’essere, S. Tommaso è in grado di trasformare profondamente anche le più importanti e basilari dottrine metafisiche di Aristotele, le dottrine della causalità, del divenire. della composizione d’atto e potenza e della composizione di materia e forma, del finito e dell’infinito, e di conseguenza le dottrine sul mondo, sull’uomo, sull’anima e su Dio.