Secondo l’uso più comune questo termine significa la disposizione ad accogliere come vere le informazioni di cui non si hanno prove personali. basandosi sull’autorità altrui (del sacerdote, del maestro, dell’amico ecc.). Passando dal linguaggio comune alla teologia, nel cristianesimo la fede è una delle tre virtù teologali; essa dispone il credente ad abbandonarsi fiduciosamente nelle mani di Dio e ad accettare umilmente la sua parola.
Della fede, S. Tommaso si è occupato in molti scritti: nel Commento alle Sentenze, III, dd. 23-25; net De Veritate, q. 14, aa. 1-12; nella Lontra Gentile, I, c. 6, III, ecc. 152, 154; nel Commento al De Trinitate di Boezio, q. 3, a. 1; nei Quodlibetalia, II, a. 6 e VI, a. 2; nel Commento al Vangelo di Giovanni, cc. 4, 6, 7, I1, e alla Lettera agli Ebrei, c. 11, ed infine nella Summa Theologiae, 11-11, qq. 1-16, che è indubbiamente la trattazione più matura, più organica, più esaustiva e più perfetta. Secondo Giovanni di San Tommaso, nella Summa l’Angelico "ha seguito un ordine eccelso e profondissimo".. In realtà qui ci troviamo di fronte a una costruzione dottrinale imponente in cui "l’armonioso sviluppo di tutto l’insieme è perfettamente integrato con la profondità e la ricchezza degli argomenti trattati" (D. Mongillo). Nota caratteristica di questa possente sintesi dottrinale è l’unificazione di tutti i problemi che riguardano la fede nell’ambito di una sola trattazione, nel corso della quale si sviluppano gli aspetti dogmatici, psicologici, etici, apologetici. Si affronta lo studio dell’oggetto della fede, del suo atto, dei motivi di credibilità (i preambula fidei), dei diversi problemi concernenti il rapporto fede-chiesa ecc. Questa concezione unitaria permette di valorizzare le ricchezze teologali della fede e di porla a fondamento e a sostegno di tutta la vita spirituale del credente.
2. DEFINIZIONE DELLA VIRTU' DELLA FEDE
2. DEFINIZIONE DELLA VIRTU' DELLA FEDE
Nella definizione della fede l’Angelico esalta lo spessore fortemente "teologico" di questa virtù: essa procede da Dio (è un dono di Dio); ha come oggetto Dio e ha ancora Dio come suo unico fine. Per questo si dice Credo Deum, Credo Deo e Credo in Deum (cfr. II-II, q. 2, a. 2).
Dio, precisa S. Tommaso, della fede e sia oggetto materiale sia oggetto formale: "Se consideriamo la ragione formale dell’oggetto, essa non ha altro oggetto che la prima Verità (nihil est aliud quam Veritas prima), poiché la fede di cui parliamo non accetta verità alcuna se non in quanto è rivelata da Dio; perciò si appoggia alla verità divina come a suo principio. Se invece consideriamo materialmente le cose accettate dalla fede, oggetto di questa verità non è soltanto Dio, ma molte altre cose. Queste però non vengono accettate dalla fede, se non in ordine a Dio: cioè solo in quanto l’uomo viene aiutato nel cammino verso la fruizione di Dio dalle opere di lui. Perciò anche da questo lato in qualche modo oggetto della fede è sempre la prima Verità, poiché niente rientra nella fede, se non in ordine a Dio (nihil cadit sub fide nisi in ordine ad Deum): cioè come la salute è oggetto della medicina, poiché niente è considerato dalla medicina, se non in ordine alla salute" (II-II, q. 1, a. 1).
3. PARTECIPAZIONE ALLA SCIENZA DIVINA
3. LA FEDE COME PARTECIPAZIONE ALLA SCIENZA DIVINA
Stabilito che oggetto della fede è la Verità prima, ossia Dio, e che quindi la fede è conoscenza di tale Verità, S. Tommaso conclude logicamente che la fede è una partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso, ossia è una partecipazione alla scienza divina. Ovviamente si tratta di una partecipazione assai imperfetta, giacché la nostra mente non comprende le verità che ritiene per vere credendo: "Nella conoscenza che si ha per fede l’operazione intellettuale è imperfettissima da parte dell’intelletto" (C. G., III, c. 40). Tuttavia è una partecipazione stimolante, che induce nel credente la brama della visione di Dio e della vita eterna. "Nella conoscenza della fede il desiderio dell’uomo resta inappagato. La fede infatti è una conoscenza imperfetta: si credono verità non evidenti, perciò rimane nel credente la tendenza a vedere perfettamente le verità che crede e a conseguire ciò per cui si può essere introdotti a questa verità" (Comp. Theol., II, c. 1). "La conoscenza della fede non appaga il desiderio, bensì lo acuisce, giacché ognuno desidera vedere le cose che crede" (C. G., III, c. 40). Il credente ha una profonda nostalgia del cielo, è un assetato di luce, poiché la fede "causa il desiderio della verità creduta" (In Ioan., c. 4, lect. 5).
Dalla stessa definizione della fede e dalla sua caratterizzazione come partecipazione alla scienza divina, già si evince quel carattere intellettivo di questa virtù, che S. Tommaso non si stanca mai di sottolineare nei suoi scritti. La fede è eminentemente atto dell’intelletto: "Credere è direttamente atto dell’intelletto, in quanto ha per oggetto il vero che propriamente appartiene all’intelligenza. Perciò è necessario che la fede, essendo principio di quest’atto, risieda nell’intelletto (II-II, q. 4, a. 2; cfr. De Ver., q. 14, a. 4). Propriamente è un atto del giudizio (non dell’astrazione o del ragionamento). Infatti "Le cose conosciute sono in chi le conosce secondo la natura del conoscente. Ora è proprio della natura dell’intelletto conoscere la verità componendo o dividendo (ossia giudicando)" (II-II, q. 1, a. 2). Ma è un atto intellettivo peculiare che viene designato col termine cogitare. Questo termine, preso in senso stretto, spiega S. Tommaso, "indica una considerazione dell’intelletto accompagnata da una ricerca (consideratio intellectus quae est cum quadam inquisitione) prima di giungere alla perfetta intellezione mediante la certezza dell’evidenza... Ora l’atto del credere ha un’adesione ferma ad una data cosa, e in questo chi crede è nelle condizioni di chi conosce per scienza o per intuizione; tuttavia la sua conoscenza non è compiuta mediante una percezione evidente (non est perfecta per manifestam visionem), e da questo lato chi crede è nelle condizioni (conoscitive) di chi dubita, di chi sospetta e di chi sceglie un’opinione. E sotto questo aspetto è proprio del credente il cogitare approvando (proprium est credentis ut cum assensu cogitet). Ed e così che l’atto del credere si distingue da tutti gli altri atti intellettivi che hanno per oggetto il vero e il falso" (II-II, q. 2, a. 1).
4. LA CERTEZZA DELLA FEDE
4. LA CERTEZZA DELLA FEDE
Per quanto l’oggetto della fede (la Verità divina) sia del tutto inevidente in quanto supera infinitamente i poteri della nostra ragione, tuttavia quanto alla fermezza dell’assenso, ossia rispetto alla certezza, non c’è nessun’altra conoscenza che possa superare la fede. Ciò che caratterizza l’atto di fede è infatti proprio l’assenso: si tratta di un assensus firmissimus. La certezza della fede è fermissima, perché viene da Dio: "La fede ha la certezza per il lume divinamente infuso" (In Ioan., c. 4, lect. 5).
Approfondendo la natura di questo assenso S. Tommaso mette in luce il grande peso che ha la volontà nell’atto di fede. "L’intelletto di chi crede viene determinato all’assenso non dalla ragione ma dalla volontà. Ecco quindi che l’assenso si prende qui come atto dell’intelletto in quanto determinato dalla volontà (assensus hic accipitur pro actu intellectus secundum quod a voluntate determinatur ad unum)"" (II-II, q. 2, a. 1, ad 3). L’intervento della volontà è necessario, precisa S. Tommaso, non solo per quella mozione generale che la volontà esercita su tutte le facoltà operative soggette al suo dominio, ma anche in ordine alla verità dell’oggetto conosciuto. A differenza della conoscenza immediata o dimostrativa, ove la verità si impone per la sua evidenza o per la dimostrazione e perciò determina per se stessa l’assenso di chi la considera, nell’atto di fede è la volontà che muove all’accettazione del contenuto, in quanto la verità proposta è del tutto inevidente. "A volte l’intelletto non può essere determinato all’assenso né immediatamente per la stessa definizione dei termini, come avviene nei princìpi, né in forza dei princìpi, come accade nelle conclusioni dimostrative; ma viene determinato dalla volontà la quale decide di muovere all’assenso (...) per qualcosa che è sufficiente a muovere la stessa volontà ma non l’intelletto. E questa è la disposizione del credente" (De Ver., q. 14, a. 1; cfr. II-II, q. 2, a. 2). Nella fede dunque è determinante l’influsso della volontà che, in questo caso, ha un compito decisivo: "Nella conoscenza di fede, la volontà ha il compito principale; l’intelletto infatti dà l’assenso di fede alle cose che gli sono proposte perché è mosso non dalla stessa evidenza della verità bensì dalia volontà" (C. G., III, c. 40; cfr. De Ver., q. 14, a. 2, ad 10).
Concludendo, secondo S. Tommaso l’atto di fede appartiene sia all’intelletto sia alla volontà, ma non allo stesso modo: formalmente è atto dell’intelletto perché riguarda la verità (che è l’oggetto proprio dell’intelletto); effettivamente (ossia dal punto di vista della causalità efficiente) è atto della volontà, perché è la volontà che muove l’intelletto ad accogliere gli oggetti (verità) di fede, in quanto essi superano il potere dell’intelletto, il quale si rifiuterebbe di accoglierli essendo privi della necessaria evidenza, senza la spinta della volontà.
5. NECESSITA' DELLA FEDE
5. NECESSITA' DELLA FEDE
S. Tommaso argomenta la necessità della fede dal traguardo che Dio ha voluto assegnare alla vita umana, un traguardo che va ben al di là dei poteri naturali della ragione, e che tuttavia questa non può ignorare, se il conseguimento del traguardo deve avvenire non in modo meccanico ma in modo confaciente alle creature intelligenti. Il traguardo soprannaturale che Dio ha prestabilito per l’uomo è la visione diretta della Trinità e la partecipazione alla sua vita beatificante. "La perfezione della creatura ragionevole non consiste soltanto in ciò che le compete secondo natura, ma anche in ciò che le viene concesso da una partecipazione soprannaturale della bontà divina. Per questo sopra abbiamo detto che l’ultima beatitudine dell’uomo consiste in una visione soprannaturale di Dio. Visione alla quale l’uomo non può arrivare se non come discepolo sotto il magistero di Dio, secondo le parole evangeliche: “Chiunque ha udito il Padre e si è lasciato ammaestrare da Lui viene a me” (Gv 6, 46) (...). Perciò affinché l’uomo raggiunga la visione perfetta della beatitudine, si richiede che prima creda a Dio, come fa un discepolo col suo maestro" (II-II, q. 2, a. 3; cfr. De Ver., q. 14, a. 10).
Di fatto le grandi verità che Dio ha insegnato all’umanità e che tutti sono tenuti a credere sono due: la prima in ordine temporale (ma in ordine logico è la seconda) è l’incarnazione, passione e morte del Figlio di Dio: "Come sopra abbiamo spiegato, ciò che è indispensabile all’uomo per raggiungere la beatitudine appartiene propriamente ed essenzialmente all’oggetto della fede. Ora la via per cui gli uomini possono raggiungere la beatitudine è il mistero della incarnazione e passione di Cristo (via autem hominibus veniendi ad beatitudinem est mysterium incarnationis et passionis Christi); poiché sta scritto: “Non c’è alcun altro nome dato agli uomini, dal quale possiamo aspettarci d’essere salvati”. Perciò era necessario che il mistero dell’incarnazione di Cristo in qualche modo fosse creduto da tutti in tutti i tempi: però diversamente secondo le diversità dei tempi e delle persone" (II-II, q. 2, a. 7). La seconda verità in ordine temporale (ma prima in ordine logico) riguarda l’essere stesso di Dio (che sarà l’oggetto della visione beatifica): è il mistero trinitario: "Non è possibile credere esplicitamente il mistero di Cristo, senza la fede nella Trinità: poiché il mistero di Cristo implica l’assunzione della carne da parte del Figlio di Dio, la rinnovazione del mondo mediante la grazia, e la concezione di Cristo per opera dello Spirito Santo. Perciò prima di Cristo il mistero della Trinità fu creduto come il mistero dell’Incarnazione, e ciò esplicitamente dai dotti e in maniera implicita e quasi velata dalle persone semplici. Quindi venuto il tempo della propagazione della grazia, tutti sono tenuti a credere espressamente il mistero della Trinità (post tempus gratiae divulgatae tenentur omnes explicite credendum mysterium Trinitatis)" (II-II, q. 2, a. 8).
6. FEDE IMPLICITA ED ESPLICITA
6. FEDE IMPLICITA ED ESPLICITA
Occupandosi della delicata questione della necessità della fede, S. Tommaso introduce alcune distinzioni di capitale importanza: tra fede implicita ed esplicita, verità primarie e secondarie, conoscenza dei dotti e conoscenza delle persone semplici. Poste queste distinzioni l’Angelico afferma che si richiede da tutti indistintamente una fede esplicita nei due misteri fondamentali dell’Incarnazione e della Trinità. Per il resto, alla gente semplice può bastare una fede implicita; mentre dai dotti si esige una fede esplicita anche riguardo alle verità secondarie. "Non tutti sono tenuti a credere esplicitamente tutte le cose che sono di fede, ma soltanto coloro che sono chiamati a diventare maestri della fede, come nel caso dei prelati e di coloro che sono in cura d’anime (...). Nel tempo della grazia sia i dotti sia i semplici sono tenuti ad avere una fede esplicita nella Trinità e nel Redentore (tempore gratiae omnes, maiores et minores, de Trinitate et de Redemptore tenentur explicitam fidem habere). Però la gente semplice non è tenuta a credere tutto ciò che appartiene alla fede circa la Trinità, ma vi sono tenute soltanto le persone colte. La gente semplice è però tenuta a credere esplicitamente gli articoli fondamentali della fede, come che Dio è uno e trino, che il Figlio di Dio si è incarnato ed è morto e risorto, e altri articoli simili, che la Chiesa celebra solennemente" (De Ver., q. 14, a. 11).
Altrove S. Tommaso è meno categorico sulla esplicitazione formale degli articoli di fede e ammette che la fede implicita possa praticamente estendersi agli stessi misteri fondamentali, purché esista quella disponibilità alla divina rivelazione che è implicita nella fede nella provvidenza divina. Così S. Tommaso può ammettere che sono stati salvati (e si possono salvare) molti Gentili, anche se ovviamente sono tutti salvati grazie all’unico salvatore, Gesù Cristo: "Tuttavia anche se alcuni si salvarono senza codeste rivelazioni, non si salvarono senza la fede nel Mediatore. Perché anche se non ne ebbero una fede esplicita, ebbero però una fede implicita nella divina provvidenza, credendo che Dio sarebbe stato il redentore degli uomini nel modo che a lui sarebbe piaciuto, e secondo la rivelazione da lui fatta a quei pochi sapienti che erano nella verità " (II-II, q. 2, a. 7, ad 3).
7. LA FEDE E LA CHIESA
7. LA FEDE E LA CHIESA
La fede è un dono dato primieramente alla Chiesa; solo in essa non viene mai meno; solo in essa la fede non è mai "informe", bensì sempre "formata"" cioè viva e animata dalla carità (II-II, q. 1, a. 9, ad 3). Qui la Chiesa non è intesa da S. Tommaso principalmente come comunità esteriore e visibile che "amministra la dottrina da credere", ma come soggetto credente e professante la fede. In questo senso coinvolge il mistero della reale santità posseduta, e quindi si tratta della Chiesa come realtà mistica. Il credente singolo si trova dentro questa unità viva, costituita da tutu i "santi", cioè da coloro che appartengono alla Chiesa non solo esternamente ma intimamente, non solo numericamente ma anche effettivamente. "La professione di fede è presentata nel simbolo a nome di tutta la Chiesa, che deve alla fede la sua unità. Ma la fede della Chiesa è una fede formata (dalla carità): e tale è la fede di coloro che appartengono alla Chiesa per numero e per merito (qui sunt numero et merito de Ecclesia). Ecco perché nel simbolo si presenta una professione di fede adatta per la fede “formata”: e anche perché i fedeli che non avessero una fede “formata” cerchino di raggiungerla"" (II-II. q. 1, a. 9, ad 3).
In ultima analisi il problema della fede diventa il problema della Chiesa. La vera fede si trova nell’autentica Chiesa. Ogni singolo credente deve misurarsi con quella fede-matrice, non solo quanto alla dottrina contenuto, bensì anche quanto alla fede-atteggiamento, alla fede-docilità, tensione alla visione, disponibilità a Dio, amore e abbandono all’amore.
Le distinzioni poste da S. Tommaso tra fede implicita ed esplicita, tra verità primarie e secondane, tra fede "dotta" e "semplice", e il suo insegnamento sul carattere essenzialmente ecclesiale della fede sono pietre miliari da tener sempre presenti da chi svolge attività ecumenica, specialmente quando questa ha luogo tra le Chiese cristiane, ma anche quando gli interlocutori appartengono a religioni differenti.