Dal latino veritas, greco aletheia; secondo la definizione più classlea, seguita da quasi tutti i filosofi, è la conformità della mente, cioè della conoscenza, con la realtà. Parmenide per primo ha individuato tale struttura relazionale della verità, che è stata poi come codifleata nella formulazione medioevale di "adaequatio rei et intelectus". Essa comporta da un lato l’intrinseca luminosità o intelligibilità dell’essere, e dall’altro la costitutiva apertura o intenzionalità dell’intelligenza umana all’essere stesso. Il frutto dell’incontro della mente con le cose è quello che primariamente si intende per verità.
Un passo decisivo verso la reificazione del concetto di verità fu compiuto da Aristotele, il primo filosofo che abbia sottoposto a una analisi accurata gli atti conoscitivi con cui l’uomo viene in possesso della verità dell’essere. Dalla sua analisi è emerso che nella semplice intuizione (astrazione) di un’essenza, cioè nel primo accoglimento concettuale di un ente (nella prima operazione dell’intelletto) non si dà né verità né falsità, ma semplicemente presenza o assenza rappresentativa di quella realtà come è in sé; il vero o il falso subentrano invece nell’atto successivo del giudizio, con cui enunciamo che una determinata cosa extramentale è o non è, è in un dato modo oppure in un altro: qui, scrive Aristotele, il nostro conoscere incorre nel rischio della verità o della falsità secondo che esso incontri o fallisca la realtà delle cose, realtà che non dipende da noi. Pertanto la verità, secondo Aristotele, è anzitutto una proprietà del pensiero. "Il vero è l’affermazione di ciò che è realmente congiunto e la negazione di ciò che è rea!mente diviso; il falso è, invece, la contraddizione di questa affermazione e di questa negazione (...). Infatti il vero e il falso non sono nelle cose, ma solo nel pensiero; anzi, per quanto concerne gli esseri semplici e le essenze, non sono neppure nel pensiero" (Metaf., VI, 1027b, 21 ss.). Sempre secondo Aristotele, noi conosciamo la verità di una cosa quando giungiamo alla scoperta della sua causa, cioè quando dalla semplice constatazione del fatto che è (oti, quod est) riusciamo a stabilirne in modo necessario, universale e specifico il perché è (dioti, propter quid), acquistandone una conoscenza innegabile e scientifica. Conoscere le cause delle cose è compito proprio della filosofia; perciò "è giusto denominare la filosofia scienza della verità, perché il fine della scienza teoretica è la verità, mentre il fine della pratica è l’azione" (Metaf., I, 982a, 2).
Il concetto di verità è ben presente anche nella S. Scrittura, ma non ne1la forma di concetto filosofico bensì di orientamento di vita, di fedeltà, di lealtà (Dt 32, 4; Pr 28, 30). Dio stesso è verità. Molte sono le espressioni dell’A. T. che si riferiscono a Dio come "Dio di verità"; "Dio vero, fedele agli impegni contratti" (Gn 24, 27; Ger 10, 10; Sal 31, 6); al cammino di Jahvè che è "cammino di fedeltà e verità" (Sal 25, 10). Anche nel N. T. Dio è la verità (1 Gv 5, 20) e pure Gesù si definisce la Verità (Gv 14, 6). Egli è venuto per la Verità (Gv 1, 17), è la luce vera (Gv 1, 9) e rende testimonianza alla verità (Gv 8, 10; 18, 37). Il cristiano, a sua volta, deve testimoniare la sua fede per mezzo dello spirito di verità (Gv 15, 26 s.). La verità infine contribuisce alla edificazione della comunità dei credenti (Ef 4, 15 ss.). Dall’insieme di questi testi risulta che la verità nella S. Scrittura, più che come rapporto gnoseologico tra la mente e le cose, è presente come rapporto esistenziale che qualifica una persona in tutto il suo essere soprattutto sul piano morale e religioso.
S. Agostino, massimo esponente della filosofia cristiana nell’epoca dei Padri, anche nel problema della verità realizza una feconda sintesi tra le acquisizioni della filosofia greca (in particolare del neoplatonismo) e le nuove illustrazioni del messaggio evangelico. Nella sua lunga e appassionata ricerca intorno alla verità il Dottore di Ippona consegue due risultati di capitale importanza. Il pruno è la dimensione interiore della Verità: "Noli foras ire, in interiore homine habitat veritas". Però, soggiunge prontamente Agostino, non abita in noi come nostro possesso di cui noi possiamo disporre arbitrariamente, bensì come un dono: "Confessa di non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece, cercandola non nello spazio ma con l’affetto dell’anima, sei giunto a lei per unirti, come uomo interiore, con lei, ospite tuo, non con il piacere basso della carne, ma con una voluttà suprema e spirituale" (De vera rel. 39, 73). Il secondo risultato è il carattere trascendente: la verità. è presente nella mente, come regola di tutto ciò che essa conosce e quindi la trascende necessariamente. Pur essendo presente nella mente, la verità esige un fondamento diverso, superiore alla mente: questo fondamento è Dio, o meglio il Verbo eterno di Dio, che è il luogo appropriato delle idee esemplari o delle verità eterne secondo le quali sono state create tutte le cose, radice e norma di ogni altra verità, termine di felicità per ogni spirito intelligente (cfr. De lib. arb. II, 15, 39 s.).
Anselmo d’Aosta è il primo pensatore che dedica un intero trattato, il De veritate, alla determinazione del concetto di verità In codesto breve dialogo, seguendo l’esempio di Agostino, egli dimostra anzitutto l’esistenza indefettibile della verità, poi ne chiarisce la natura. Secondo Anselmo l’essenza della verità consiste in una rectitudo o conformità di qualunque cosa che è con ciò che deve essere, secondo il pensiero divino in cui riluce la sua essenza o forma esemplare: "Vi è dunque verità nell’essere di tutte le cose, poiché esse sono così come sono nella somma verità" La verità in sé è unica ed eterna, è Dio stesso, ma essa penetra di sé l’intero universo delle creature e della storia senza spezzarsi, risplendendo nell’unità analogica della rettitudine dei singoli veri.
S. Tommaso affronta il problema della verità in diverse opere, dal giovanile Commento alle Sentenze alle Quaestiones disputatae De Veritate, alla prima parte della Somma Teologica nel contesto della scienza e della vita divina. Ovunque egli si attiene al concetto aristotelico di verità come qualcosa che appartiene essenzialmente e primariamente all’intelligenza: essa designa il rapporto di adeguazione (adaequatio) o corrispondenza (correspondentia, convenientia) che l’intelletto ha nei confronti dell’essere di una cosa. Ma, pur concordando con Aristotele nel concetto generale di verità, S. Tommaso va ben oltre lo Stagirita, arricchendolo notevolmente grazie ai nuovi impulsi provenienti in parte dalla rivelazione biblica e in parte dalle sue intuizioni metafisiche ispirate alla filosofia dell’essere. I guadagni maggiori sono: a livello logico, il collegamento dell’atto del giudizio con l’actus essendi; a livello ontologico, la radicazione di ogni verità finita o partecipata nella verità infinita e impartecipata di Dio.
1. VERITA' LOGICA
1. VERITA' LOGICA
Della verità l’Angelico menziona varie definizioni proposte da S. Agostino, Avicenna, S. Anselmo e altri (cfr. I Sent., d. 19, q. 5, a. 1; De Ver., q. 1, a. 2), ma trova che per l’aspetto logico-gnoseologico la definizione più corretta è la formula attribuita a Isacco Ben Israeli (sec. X), la quale dice che la verità consiste essenzialmente nella corrispondenza tra le idee e le cose (veritas est adaequatio rei et intellectus). S. Tommaso chiarisce il senso di questa definizione indicando i casi in cui non ha luogo la corrispondenza che si esige per la verità. Ciò avviene sia quando la mente aggiunge qualche elemento che la cosa rappresentata non possiede, sia quando omette qualche elemento che invece la cosa racchiude: "La verità in effetti consiste in una certa eguaglianza tra il pensiero (mentem) e la cosa. E poiché l’eguaglianza è qualche cosa che sta in mezzo tra il più e il meno, ne consegue che il bene della virtù intellettiva (che è la verità) occupi la posizione intermedia tra il più e il meno, e ciò avviene quando si pensa e si dice della cosa ciò che è. Se invece eccede sia aggiungendo qualche cosa in più o assegnandole qualche cosa in meno, si incorre nel falso" (III Sent., d. 33, q. 1, a. 3, sol. 3).
La verità, secondo l’Angelico, è un’esigenza fondamentale dell’intelligenza. E' infatti il suo fine proprio e specifico: l’intelligenza è fatta per la verità, e quindi soltanto quando la raggiunge ne resta appagata. Come il fine che appaga la volontà è il bene, analogamente il fine che appaga l’intelletto è il vero: "Bonum virtutum intellectualium consistit in hoc quod verum dicatur" (ibid.). Ora, dato che la natura non viene mai meno quando si tratta delle finalità proprie ed essenziali di determinati enti e operazioni, si può legittimamente concludere che in condizioni normali l’intelletto umano attinge la verità (I Sent., d. 3, q. 1, a. 2). C’è di più. La ragione non solo è in grado di raggiungere la verità ma anche di acquisirne la consapevolezza critica. E secondo S. Tommaso, come già secondo Aristotele, ciò accade soltanto nel giudizio: "L’intelletto che elabora le essenze delle cose non possiede nient’altro che l’immagine delle cose esterne e in questo è alla pari col senso, il quale riceve la specie delle cose sensibili. Però quando l’intelletto comincia a formulare giudizi intorno alle cose apprese, allora inizia a esserci qualcosa che appartiene esclusivamente all’intelletto e che non si trova nelle cose esterne. Pertanto quando ciò che si trova nell’intelletto è conforme a ciò che c’è nelle cose, si dice che il giudizio è vero. Ma l’intelletto giudica della cosa appresa quando dice che qualcosa è oppure non è; il che appartiene all’intelletto componente e dividente. Per cui anche il Filosofo dice (nel VI libro della Metafisica) che la composizione e divisione esiste nell’intelletto e non nelle cose" (De Ver., q. 1, a. 3; dr. III Sent., d. 23, q. 2, a. 2, sol. 1; IV Met., lect. 4) (vedi GIUDIZIO).
Nel considerare il giudizio quale sede propria della verità, S. Tommaso mette a buon frutto una delle tesi chiave della sua filosofia dell’essere: la tesi della distinzione tra essenza ed essere, col conseguente primato dell’essere rispetto all’essenza. Tale distinzione gli consente di assegnare la conoscenza dell’essenza all’intelletto astraente e la conoscenza dell’atto dell’essere all’intelletto giudicante. Ecco come l’Angelico argomenta in modo limpidissimo questo punto capitale della sua gnoseologia: "La verità ha il suo fondamento nelle cose, ma formalmente essa si realizza nella mente, quando questa apprende le cose così come sono (...); ma poiché nella cosa ci sono due principi: l’essenza e l’atto d’essere, la verità si fonda più sull’essere che non sull’essenza, allo stesso modo come la parola ente trae origine dal verbo essere. Infatti la relazione di adeguazione, in cui consiste la verità, si compie in quella operazione dell’intelletto in cui esso riceve l’essere della cosa mediante un’immagine del medesimo, ossia nel giudizio. Per cui affermo che lo stesso essere della cosa, mediante la sua rappresentazione mentale, è la causa della verità; però propriamente la verità si trova anzitutto nell’intelletto e poi nella cosa" (I Sent., d. 19, q. 5, a. 1).
L’aspetto più interessante e originale del concetto tomistico di verità riguarda l’attenzione che si riserva all’essere. E questo si trova in perfetta sintonia con la filosofia dell’Aquinate che è essenzialmente filosofia dell’essere. L’essere è infatti per S. Tommaso l’actualitas omnium actuum e la perfectio omnium perfectionum, quell’atto primissimo e fondamentale, quella perfezione omniconclusiva che permea tutte le cose conferendo loro consistenza e realtà. Per cui ogni cosa è tale in forza della sua partecipazione all’essere. Ora, dato che la verità sta nella corrispondenza tra il pensiero e le cose, S. Tommaso afferma logicamente che tale corrispondenza ha luogo nel momento in cui l’intelletto coglie l’essere delle cose e ciò avviene, come s’è detto, nell’atto del giudizio. In tal modo l’Aquinate ottiene una spiegazione più profonda della tesi aristotelica secondo cui la verità è proprietà del giudizio.
2. VERITA' ONTOLOGICA O TRASCENDENTALE
2. VERITA' ONTOLOGICA O TRASCENDENTALE
S. Tommaso non si stanca di ripetere, e abbiamo anche avuto modo di constatarlo nei testi citati in precedenza, che la verità è anzitutto una disposizione, una qualità del conoscere: è il suo rapporto di conformità con l’essere. Però, trattandosi di una relazione, la verità non può non essere anche e allo stesso tempo proprietà delle cose. E così, in quanto proprietà delle cose, essa assume valore ontologico, e poiché è proprietà dell’ente in quanto tale, la verità ha valore trascendentale. La definizione formale della verità ontologica è la stessa che si dà per la verità gnoseologica: adaequatio rei et intellectus. E la relazione di corrispondenza tra la cosa e la mente. Ma mentre nella verità logica il relativo o, come dice con grande precisione S. Tommaso, il "misurato" è la mente e il "misurante" è la cosa; nella verità ontologica il rapporto si rovescia: il "misurato" è l’ente e il "misurante" è l’intelletto che crea le cose, in definitiva Dio stesso. Ecco come si esprime molto lucidamente l’Angelico a questo riguardo: "Occorre tener presente che le case si possono rapportare all’intelletto in due maniere diverse: 1) come misura al misurato; così, per es., si rapportano le cose naturali all’intelletto speculativo umano; infatti la nostra mente si dice vera in quanto si conforma alle cose, e falsa in quanto discorda da esse (...); 2) in secondo luogo, le cose si possono rapportare all’intelletto non come misura al misurato ma come il misurato al misurante: ciò accade rispetto all’intelletto pratico che è la causa delle cose. Onde l’opera di un artigiano dicesi vera quando realizza l’idea che egli voleva realizzare; si dice invece falsa quando non la realizza. Ora, siccome tutte le cose si rapportano all’intelletto divino come gli artefatti al loro artefice, ne consegue che ogni cosa si dice vera in quanto possiede una forma che imita l’idea di Dio. Così il falso oro ha pure una sua verità come ottone. Perciò l’ente e il vero sono convertibili, perché tutte le cose mediante la loro forma si conformano alla idea di Dio" (In I Periherm., lect. 3, nn. 28-29).
S. Tommaso chiarisce ulteriormente questo punto distinguendo tra verità ontologica sostanziale e verità ontologica accidentale. Si dice sostanziale quando è la verità stessa a porre in essere, a causare la realtà dell’ente. Tale è il rapporto degli enti con l’essere sussistente, delle creature con Dio (a dell’opera d’arte con il progetto dell’artista). Si dice invece accidentale quando la verità è l’effetto prodotto dall’ente nell’intelligenza umana: effetto che lascia inalterata la realtà dell’ente, perché questo continua a esistere anche quando nessuno la conosce (e per questo si dice verità ontologica accidentale). "Le cose conosciute, scrive l’Aquinate, possono avere con l’intelletto rapporti essenziali oppure accidentali. Sono ordinate essenzialmente a quell’intelletto dal quale dipendono nel loro essere; accidentalmente a quell’intelletto dal quale sono conoscibili (per se quidem habet ordinem ad intellectum a quo dependet secundum suum esse; per accidens autem ad intellectum a quo cognoscibilis es:). Come se dicessimo: la casa importa relazione essenziale alla mente dell’architetto, e relazione accidentale a un altro intelletto da cui non dipende nell’essere. Ora, una cosa non si giudica in base a quello che le conviene accidentalmente, ma in base a quello che le si addice essenzialmente: quindi ogni cosa si dice vera assolutamente per il rapporto che ha con l’intelletto dal quale dipende (unaquaeque res dicitur vera absolute, secundum ordinem ad intellectum a quo dependet). Perciò i prodotti delle arti si dicono veri in ordine al nostro intelletto; vera infatti si dice quella cosa che riproduce la forma che è nella mente dell’architetto; vere le parole, quando esprimono un pensiero vero. Così le cose naturali si dicono vere in quanto attuano la somiglianza delle specie che sono nella mente di Dio: per es, si dice vera pietra, quella che ha la natura propria della pietra, secondo il concetto preesistente nella mente divina" (I, q. 16, a. 1; De Ver., q. 1, aa. 2 e 4).
La verità ontologica accidentale è anche chiamata dall’Angelico intelligibilità: "Il vero aggiunge all’ente un rapporto di intelligibilità con l’intelletto" (I, q. 16, a. 3). L’intelligibilità qualifica l’aprirsi, il dischiudersi, il manifestarsi delle cose rispetto alla nostra mente, in cui consiste essenzialmente la verità dell’ente, come giustamente affermerà Heidegger, senza peraltro fornire una spiegazione adeguata di tale proprietà dell’ente. S. Tommaso ha saputo invece cogliere anche la ragione ultima della intelligibilità dell’ente: le cose sono vere e intelligibili perché il loro essere consiste anzitutto nell’essere conosciuto (come diranno Berkeley e Hegel), e noi le possiamo conoscere perché sono già state conosciute sin dalla loro primissima origine. Le cose possono suscitare in noi vera conoscenza perché sono fondate nella verità, in quanto cioè sono conosciute da Dio. Nella metafisica di S. Tommaso l’intelligibilità delle cose, la loro "apertura", la loro verità non nasconde nulla di misterioso, come pretenderà Heidegger. La verità per S. Tommaso è una proprietà primaria, universale, trascendentale dell’ente: l’ente è essenzialmente intelligibile, aperto, vero.
Secondo l’Aquinate la verità ontologica essenziale è convertibile con l’ente: "Il vero si identifica con l’ente" (sicut bonum convertitur cum ente, ita et verum) (I, q. 16, a. 3). La ragione è che questa verità non dice altro che l’ente stesso considerato in rapporto all’essere sussistente, rapporto che gli è essenziale, ma che sotto l’aspetto della conformità non è esplicitato dal termine ente ma soltanto dal termine vero. Tra ente e vero, pertanto, non si dà nessuna distinzione reale, perché quanto alla realtà sono perfettamente convertibili; c’è solo una diversità di concetti e quindi di connotazioni. Ente dice partecipazione all’essere, mentre verità dice che tale partecipazione all’essere avviene secondo le esigenze della propria essenza, la quale, come aveva già provato S. Anselmo nel suo De veritate, trova la sua misura definitiva nell’essere sussistente, cioè nella mente divina. Perciò, secondo l’Angelico, fondamento ultimo della verità delle cose come della loro unità, della loro bontà e della loro bellezza, è l’essere stesso. Infatti le cose sono intelligibili e vere nella misura in cui sono in atto. Ma sappiamo che per S. Tommaso qualsiasi atto ha la sua radice ultima nell’essere stesso, che è la actualitas omnium actuum. Quindi le cose sono intelligibili e vere nella misura in cui partecipano all’essere.
Da quanto siamo andati esponendo risulta che nella spiegazione della verità dell’ente (verità ontologica essenziale) e quindi nella definizione della verità come attributo trascendentale dell’ente, S. Tommaso è molto più vicino a Platone e a Plotino che ad Aristotele (il quale non esibisce nessuna ragione della verità ontologica delle cose). Però, ponendo ad ultimo fondamento della verità ontologica l’esse ipsum, l’Angelico abbandona anche la compagnia di Platone e di Plotino e propone una teoria nuova, affine a quella di Anselmo, ma metafisicamente più robusta grazie alla linfa vitale ricavata dalla filosofia dell’essere.
VERITA' ETERNE
3. VERITA' ETERNE
S. Agostino aveva risolto il problema del valore della conoscenza umana appellandosi alla verità eterna che illumina la nostra mente rendendola certa e infallibile. S. Tommaso con la sua netta distinzione tra verità logica e verità ontologica, può stabilire che si può parlare correttamente di verità eterne solo con riferimento alla verità ontologica, ossia "secondo il concetto preesistente nella mente divina", perché solo questa è eterna: nella mente umana non c’è nulla di eterno. "Per cui se non vi fosse nessuna mente eterna, non vi sarebbe alcuna verità eterna. Ma siccome il solo intelletto divino è eterno, soltanto in esso la verità trova la sua eternità" (I, q. 16, a. 7). Secondo S. Tommaso la percezione e la enunciazione della verità da parte dell’intelletto umano è sempre necessariamente qualche cosa, di storico, di mutevole, di perfettibile e di fallibile, e questo accade soprattutto per quelle verità fondamentali che più contano, le verità relative a Dio e all’anima. Così, per rendere più agevole e più sicuro l’acquisto di tali verità, Dio soccorre la ragione umana con la luce della sua Rivelazione, facendosi lui stesso "via, verità e vita" in Gesù Cristo (cfr. I, q. 1, a. 1).