Si dice di qualsiasi godimento legato ai sensi, però per analogia si parla anche di piaceri spirituali. Quale sia il posto da assegnare al piacere in una vita autenticamente umana, in vista della felicità, è stato da sempre argomento di disputa tra i filosofi. Nell’antropologia dualistica di Platone, pur insistendo sulla necessità di assumere un atteggiamento ascetico nei confronti del piacere, si riconosce che all’uomo conviene una vita "mista" di intelligenza e di piacere. Nell’antropologia unitaria di Aristotele il piacere è considerato come elemento essenziale alla vita umana insieme alla virtù. Nell’antropologia materialistica degli epicurei il piacere viene identificato con la felicità e pertanto forma l’obiettivo principale e costante da perseguire nella propria vita.
S. Tommaso pone una netta distinzione tra piaceri (voluptates) sensibili e carnali e piaceri spirituali ed esclude che i primi possano costituire il bene supremo dell’uomo, mentre i secondi possono rientrare nel bene, come elemento integrativo.
Secondo l’Angelico "è impossibile che la felicità dell’uomo consista nei piaceri corporei, i quali stanno specialmente nei cibi e nelle cose veneree"(C. G.. III, c. 27). A sostegno di questa tesi egli porta una lunga serie di argomenti, di cui i più persuasivi sono i seguenti:
1) "La felicità è un bene proprio dell’uomo, non potendosi chiamare felici gli animali bruti, se non abusivamente. Ora. i piaceri corporali sono comuni agli uomini e ai bruti: perciò non è da riporsi in essi la fe1icita"(ibid.).
2) "L’ultimo fine è la più nobile delle cose che appartengono a un essere, poiché corrisponde all’ottimo. Ma questi piaceri non appartengono all’uomo secondo ciò che vi è di più nobile in lui, che è l’intelletto, ma secondo il senso. Quindi non si deve riporre in essi la felicità"(ibid.).
3) "La più alta perfezione dell’uomo non può consistere nell’unirsi alle cose inferiori. ma a qualche cosa di più elevato; poiché il fine è migliore di ciò che serve per il fine. Ma i piaceri suddetti consistono appunto in questo, che l’uomo si congiunge sensibilmente ad alcune cose inferiori, cioè alle sensibili. Dunque non si deve riporre in essi la felicità"(ibid.).
4) "Dio è il fine ultimo di ogni essere. Occorrerà dunque porre come fine ultimo dell’uomo quello per cui si avvicina il massimo grado a Dio. Ora, i piaceri suddetti impediscono all’uomo di avvicinarsi più che può a Dio, il quale avvicinamento avviene mediante la contemplazione; ma questa è massimamente impedita dai suddetti piaceri, in quanto che essi immergono l’uomo nel più profondo dei beni sensibili, ritraendolo per conseguenza dagli intellettuali. Dunque non si deve porre la felicità umana nei piaceri del corpo"(ibid.).
Con questo S. Tommaso non intende escludere il piacere dalla vita umana; anzi egli riconosce apertamente che ci sono piaceri che la natura stessa ha previsto per l’uomo per lo svolgimento di certe attività, indispensabili per la sua esistenza. "La natura ha legato il piacere alle funzioni necessarie per la vita dell’uomo. Perciò l’ordine naturale richiede che l’uomo usi di codesti piaceri, quando è necessario al benessere umano, sia per la conservazione dell’individuo, sia per la conservazione della specie. Perciò se uno si astenesse da questi piaceri al punto di trascurare ciò che è necessario per la conservazione della natura, commetterebbe peccato, violando così l’ordine naturale. Ed è questo appunto che rientra nel vizio della insensibilità. Si deve però notare che talora è cosa lodevole e necessaria astenersi dai piaceri che accompagnano le suddette funzioni. per raggiungere un fine particolare. Così alcuni si astengono da certi piaceri, ossia dai cibi, dalle bevande e dai piaceri venerei, per la salute del corpo. Oppure per compiere le proprie mansioni: gli atleti e i soldati per es.. sono costretti ad astenersi da molti piaceri, per eseguire i loro esercizi. Parimenti, per ricuperare la salute dell’anima i penitenti ricorrono all’astinenza dai piaceri, come a una dieta. E coloro che vogliono attendere alla contemplazione delle cose divine, devono essere più liberi dalle cose della carne"(II-II, q. 142. a. 1).
In una concezione unitaria dell’uomo come quella che ha S. Tommaso, dove anima e corpo, sensibilità e ragione si trovano saldamente legati tra loro, l’uso del piacere può avere un’ulteriore giustificazione: esso può favorire l’azione della ragione stessa. infatti "l’uomo non può servirsi della ragione, senza far uso delle potenze sensitive, le quali hanno bisogno di un organo corporeo. Per questo l’uomo deve dare sostentamento a! corpo, per servirsi della ragione. Ma il sostentamento del corpo si fa mediante funzioni piacevoli. Perciò in un uomo non può esserci il bene di ordine razionale, se egli si astiene da tutti i piaceri. A seconda però che uno nell’eseguire gli atti imposti dalla ragione ha maggiore o minore bisogno di forze fisiche, deve ricorrere di più o di meno ai piaceri del corpo. Perciò coloro che hanno preso l’ufficio di attendere alla contemplazione e di trasmettere così agli altri il bene spirituale, quasi mediante una generazione di ordine spirituale, è bene che si astengano da molti piaceri, di cui invece non è giusto che si privino coloro che hanno il dovere di attendere a opere materiali e alla generazione carnale"(II-II, q. 142. a. 1, ad 2).
Però S. Tommaso, che ha una grandissima stima e sensibilità per le cose dello spirito, sa bene quanto i piaceri, soprattutto quelli venerei, siano nocivi alle attività spirituali: essi causano un grave ottundimento della ragione e della coscienza e le accecano a tal punto da impedire loro la conoscenza della verità: "Nei piaceri che sono oggetto della intemperanza la luce della ragione, da cui dipende tutto lo splendore e la bellezza della virtù, viene oscurata al massimo (in delectationibus circa quae est intemperantia, minus apparet de lumine rationis, in quae est tota claritas et pulchritudo virtutis)" (II-II, q. 142. a. 4; cfr. De Reg., I. II, c. 4).