Nel significato più comune e usuale questo termine designa tutto l’insieme del mondo fisico, prima e indipendentemente dall’intervento dell’uomo, vale a dire tutto ciò che non è cultura. In senso più tecnico, in Aristotele e nella filosofia scolastica, natura indica l’essenza di una cosa vista come principio di azione.
Sono quattro i grandi nodi con cui ci si deve cimentare quando si parla di natura:
1) che cos’è la natura intesa come cosmo;
2) che cos’e la natura intesa come essenza;
3) quali sono i rapporti della natura con la grazia;
4) quali sono le conseguenze del peccato sulla natura umana. Di tutti questi problemi S. Tommaso si è occupato ampiamente nei suoi scritti, fornendo chiarificazioni e soluzioni che per certi aspetti sono risultate decisive.
1. LA NATURA COME COSMO
1. LA NATURA COME COSMO
La natura come globalità di tutte le cose create è opera di Dio, il quale non ne è soltanto l’artefice in quanto l’ha chiamata all’essere col suo possente atto creativo, ma è anche colui che la conserva e la governa; cosicché nulla di quanto avviene nella natura sfugge all’azione di Dio. "Dio è causa di qualsiasi azione, dando e conservando alle cose la virtù d’agire, movendole ad agire come strumenti della divina virtù. E poiché Dio è la sua stessa virtù, e si trova in ogni cosa, non come una parte dell’essenza, ma come colui che conserva l’esistenza, ne segue che egli opera senza intermediari in qualsiasi operante, e senza escludere l’operazione della volontà e della natura"(De Pot., q. 3, a. 7).
Pur affermando il primato assoluto di Dio come causa principale di tutto quanto la natura produce, S. Tommaso difende, contro le posizioni di Agostino e di Avicenna che riservavano la causalità efficiente o a Dio o alle creature spirituali, l’efficacia dette cause seconde che operano nella natura. "Che Dio opera in ogni operante fu inteso da alcuni nel senso che nessuna virtù creata possa compiere qualche cosa nel mondo, e che sia Dio solo direttamente a far tutto; cosicché non sarebbe il fuoco a riscaldare, ma Dio nel fuoco, e cosi in tutti gli altri casi. Ma questo è impossibile. Primo, perché sarebbe tolto dal creato il rapporto tra causa ed effetto. Fatto questo che denoterebbe l’impotenza del creatore: perché la capacità di operare deriva negli effetti dalla virtù che li produce. Secondo, perché le facoltà operative che si trovano nelle cose, sarebbero state conferite loro invano, se le cose non potessero far niente per loro mezzo. Anzi, tutte le cose create in certo modo non avrebbero più ragione di essere, se fossero destituite dalla propria attività: poiché ogni ente è per la sua operazione. Infatti le cose meno perfette sono sempre ordinate a quelle più perfette: perciò, come la materia è per la forma, così la forma che è l’atto primo, è per la sua operazione, che è l’atto secondo; in tal modo l'operazione è il fine delle cose create. Quindi, l’affermazione che Dio opera in tutte le cose, va intesa in modo da non pregiudicare il fatto che le cose stesse hanno la propria operazione"(I, q. 105, a. 5).
2. LA NATURA COME PRINCIPIO INTRINSECO DELL’ENTE
2. LA NATURA COME PRINCIPIO INTRINSECO DELL’ENTE
Parlando della struttura essenziale dell’ente S. Tommaso ricorda che i filosofi, gia a partire da Aristotele, hanno dato al termine natura svariati significati: "Quandoque natura dicitur forma, quandoque vero materia"(III, q. 2, a. 1). Nel commento al capitolo quarto del quinto libro delta Metafisica, S. Tommaso enuclea sei significati del termine natura:
1) in generate, natura è la generazione delle cose o, più propriamente, secondo quanto nota lo stesso Aristotele, natura è la generazione dei viventi, dei vegetali e degli animali, i soli enti di cui si può dire che nascono in senso vero e proprio;
2) natura è il principio intrinseco della generazione, immanente alla cosa da cui prende inizio il processo di generazione;
3) natura è il principio intrinseco del movimento, che appartiene alle cose in virtù della loro essenza.
4) quarto significato di natura deriva dal terzo: se natura è principio intrinseco del movimento dei corpi, siccome ad alcuni filosofi è parso che tale principio sia la materia, essi hanno definito la natura come il principio materiale del divenire. La materia informe è perciò detta natura in quanto è principio dell’essere e del divenire delle cose, mentre, sempre secondo quei filosofi, non si potrebbe dire che la forma è natura perché le forme si susseguono l’una all’altra, per cui l’introduzione di una nuova forma comporta l’espulsione dell’altra.
5) Seguendo un ragionamento analogo, altri filosofi hanno concluso che natura delle cose è la forma o "la stessa sostanza", ossia la forma delle cose naturalmente esistenti. A tale conclusione si arriva attraverso queste considerazioni: ogni cosa che esiste o diviene naturalmente, in tanto si dice che possiede una natura, in quanto ha una propria specie e una propria forma dalla quale riceve le determinazioni specifiche; ma il termine "specie" viene usato al posto del termine "forma" e questo a sua volta al posto della figura che la specie riceve e ne è il segno. Ora, se la forma è la natura e se si può dire che qualcosa ha una natura solo quando possiede la forma, ne segue che viene detto natura il sinolo di materia e forma: i composti animali, per es., e le loro parti.
6) Infine, per estensione, natura e detta ogni sostanza, perché qualsiasi natura che funga da termine della generazione, è una certa sostanza.
Alla fine della sua ampia rassegna dei vari significati attribuiti al termine natura dai filosofi, facendo un bilancio conclusivo S. Tommaso afferma con Aristotele che nel suo senso più proprio e genuino natura è la sostanza: "Primo et proprie natura dicitur substantia" e più precisamente, la forma di quelle cose che hanno in sé stesse il principio del proprio agire (V Met., lect. V. natura 826). Ed è così, in effetti, che S. Tommaso usa generalmente il termine natura. Per questo motivo nel De Ente et Essentia egli propone la seguente definizione: "Il termine natura è stato assunto per significare l’essenza in quanto è ordinata all’operazione propria della cosa, poiché nessuna cosa può mancare di una sua propria operazione (nomen autem naturae hoc modo sumptae videtur significare essentiam rei, secundum quod habet ordinem vel ordinationem ad propriam operationem rei, cum nulla res propria destituatur operatione)"(De Ent. et Ess., c. 1). Come precisa S. Tommaso nella stessa opera, il termine natura non si identifica semanticamente né con quiddità, né con essenza né con sostanza; perché mentre natura designa l’essenza in rapporto alla generazione e all’azione, l’essenza esprime una cosa in quanto per essa e in essa ha l’essere; la quiddità indica la definizione di una cosa, la sostanza designa la cosa nella sua funzione di soggetto degli accidenti (ibid.).
3. NATURA E GRAZIA
3. NATURA E GRAZIA
Sulla spinosa questione dei rapporti tra natura e grazia, che tanto aveva angustiato S. Agostino nella sua aspra lotta contro il pelagianesimo, S. Tommaso sposa una soluzione che era già diventata dottrina comune ai suoi tempi: quella di considerare la natura come una capacità passiva e non attiva. una mera potentia oboedientialis all’elevazione allo stato soprannaturale, e, di conseguenza, la grazia come un dono assolutamente gratuito, un adiutorium bene agendi adiunctum naturae, una partecipazione alla vita divina che oltrepassa ogni possibilità della natura umana (I-II, q. 110, a. 4). Oltrepassando i poteri della natura umana, la grazia supera anche le capacità della ragione; così la grazia è un dono che si può conoscere soltanto mediante divina rivelazione: "Mediante la ragione naturale si può conoscere il sommo bene nella misura in cui questo si comunica naturalmente, non nella misura in cui si comunica soprannaturalmente; per il sommo bene come si comunica soprannaturalmente bisogna possedere la fede, dato che alla ragione esso risulta inaccessibile" (III Sent., d. 24, q. 1, a. 3, sol. 2, ad 2).
Tuttavia la grazia, per quanto superiore a ogni capacità della natura, si viene lo stesso a trovare sulla traiettoria del desiderio naturale dell’uomo di raggiungere la piena realizzazione di sé stesso e la perfetta felicità: "Gratia datur homini a Deo per quam homo perveniat ad suam ultimam et perfectam consummationem, id est ad beatitudinem ad quam habet naturale desiderium" (In Ep. II ad Cor., c. 13, lect. 2, n. 534).
4. LE CONSEGUENZE DEL PECCATO SULLA NATURA
4. LE CONSEGUENZE DEL PECCATO SULLA NATURA
S. Agostino nella sua dura polemica con i pelagiani aveva calcato eccessivamente la mano sulle conseguenze del peccato originale, tanto da ritenere la natura umana completamente incapace di operare il bene: tutte le scelte del libero arbitrio vanno inevitabilmente verso il male. S. Tommaso respinge una visione così fortemente pessimistica della natura umana: a suo giudizio essa è rimasta sostanzialmente integra anche dopo il peccato di Adamo. Perciò, le perfezioni essenziali, in quanto costitutive della natura umana, non sono state perdute; ma in quanto erano state adeguate alle esigenze del fine soprannaturale hanno subito un indebolimento. Interessante la giustificazione che S. Tommaso adduce a favore della tesi della integrità della natura dopo il peccato: "L’ordine naturale delle cose è tale che, tolto ciò che viene dopo, resti intatto ciò che precede (iste est ordo naturalis in rebus ut posteriori remoto, id quod prius est remanet)... Ora, la bontà naturale esiste prima di qualsiasi altra bontà, sia acquisita sia conferita dalla grazia. Pertanto, persa quella bontà che Dio aveva elargito alla natura umana gratuitamente, vale a dire la giustizia originale, non si addice all’ordine naturale stabilito dalla divina sapienza che venga modificato quanto appartiene alla naturale bontà di un essere; tenendo anche conto del fatto che permane nella natura la capacità di ricuperare quanto è stato perduto o qualche cosa di più eccellente" (II Sent., d. 32, q. 2, a. 2, sol.). Rimane però escluso che la natura possa reintegrare se stessa in quello che sorpassa i suoi limiti: "Quando la natura è integra, può tornare da sé nelle disposizioni a essa connaturali e proporzionate: ma non può mai reintegrarsi, senza un aiuto esterno, nei beni che sorpassano la sua misura. Ecco perché la natura umana, non essendo rimasta integra dopo l’atto peccaminoso, ma essendo stata corrotta, non può tornare da sé né al bene a essa connaturale, né tanto meno al bene della giustizia soprannaturale" (I-II, q. 109, a. 7, ad 3). Quanto al bene naturale, precisa l’Angelico, dopo il peccato l’uomo può realizzarlo soltanto parzialmente. "Nello stato di natura integra l’uomo era in grado, per l’efficacia delle sue facoltà operative, di volere e di compiere con le sua forze naturali il bene proporzionato alla sua natura, cioè il bene delle virtù acquisite: ma non un bene superiore, qual è quello delle virtù infuse. Invece, nello stato di natura corrotta l’uomo è impari a quanto potrebbe secondo la sua natura, cosicché non è in grado di compiere tutto codesto bene con le sue forze naturali: l’uomo anche allora può compiere determinati beni particolari, come costruire case, piantare vigne, e altre cose del genere; ma non può compiere tutto il bene a lui connaturale, così da non commettere qualche mancanza" (I-II, q. 109, a. 2).