12.12.2016 - Francesco e Maria

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12.12.2016

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“Beata colei che ha creduto” (Lc 1,45) con queste parole Elisabetta unse la presenza di Maria in casa sua. Parole che nascono dal suo grembo, dalle sue viscere; parole che riescono a far riecheggiare tutto ciò che sperimentò con la visita di sua cugina: “Appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto” (Lc 1,44-45).
Dio ci fa visita nelle viscere di una donna, muovendo le viscere di un’altra donna con un canto di benedizione e di lode, con un canto di gioia. La scena evangelica porta in sé tutto il dinamismo della visita di Dio: quando Dio ci viene incontro muove le nostre viscere, mette in movimento quello che siamo fino a trasformare tutta la nostra vita in lode e benedizione. Quando Dio ci fa visita ci lascia inquieti, con la sana inquietudine di coloro che si sentono invitati ad annunciare che Egli vive ed è in mezzo al suo popolo. Così lo vediamo in Maria, la prima discepola e missionaria, la nuova arca dell’alleanza che, lontana dal rimanere in un luogo riservato nei nostri templi, esce a far visita e accompagna con la sua presenza la gestazione di Giovanni. Così lo ha fatto anche nel 1531: corse al Tepeyac per servire e accompagnare il popolo che era in gestazione con dolore, diventando Madre sua e di tutti i nostri popoli.
Con Elisabetta anche noi oggi vogliamo ungerla e salutarla dicendo: “Beata colei che ha creduto” e continui a credere “nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (v. 45). Maria è così come icona del discepolo, della donna credente e orante che sa accompagnare e incoraggiare la nostra fede e la nostra speranza nelle diverse tappe che ci tocca attraversare. In Maria abbiamo il fedele riflesso “non [di] una fede poeticamente edulcorata, ma [di] una fede forte soprattutto in un’epoca in cui si spezzano i dolci incantesimi delle cose e le contraddizioni entrano in conflitto ovunque”[1].
Certamente dovremo imparare da questa fede forte servizievole che caratterizza nostra Madre; imparare da questa fede che sa entrare dentro la storia per essere sale e luce nelle nostre vite e nella società.
La società che stiamo costruendo per i nostri figli è sempre più marcata da segni di divisione e di frammentazione, lasciando “fuori gioco” tanti, specialmente coloro che hanno difficoltà a raggiungere il minimo indispensabile per portare avanti la propria vita con dignità. E’ una società alla quale piace vantarsi dei suoi progressi scientifici e tecnologici, ma che è diventata cieca e insensibile davanti a migliaia di volti che restano indietro nel cammino, esclusi dall’orgoglio accecante di pochi. Una società che finisce con il creare una cultura della disillusione, del disincanto e della frustrazione in tantissimi nostri fratelli; e anche di angoscia in tanti altri che sperimentano difficoltà per non restare fuori dal cammino.
Sembrerebbe che senza accorgercene ci siamo abituati a vivere nella “società della sfiducia” con tutto quello che ciò comporta per il nostro presente e specialmente per il nostro futuro; sfiducia che poco a poco va generando stati di indolenza e dispersione.
Quanto è difficile vantarsi della società del benessere quando vediamo che il nostro caro continente americano si è abituato a vedere migliaia e migliaia di bambini e di giovani di strada che mendicano e dormono nelle stazioni dei treni, nei sotterranei della metropolitana o dove riescono a trovare un posto. Bambini e giovani sfruttati in lavori clandestini o costretti a trovare una moneta agli incroci delle strade, pulendo i parabrezza delle nostre auto e sentono che nel “treno della vita” non c’è posto per loro. E quante famiglie continuano a essere segnate dal dolore di vedere i propri figli vittime dei mercanti della morte. Quanto è duro vedere come abbiamo normalizzato l’esclusione dei nostri anziani obbligandoli a vivere nella solitudine, semplicemente perché non sono produttivi; o vedere – come bene hanno detto i vescovi ad Aparecida – “la situazione precaria che colpisce la dignità delle nostre donne. Alcune, da bambine e da adolescenti, sono sottomesse a molteplici forme di violenza dentro e fuori di casa”[2]. Sono situazioni che ci possono paralizzare, che possono farci dubitare della nostra fede e specialmente della nostra speranza, della nostra maniera di guardare e affrontare il futuro.
Davanti a tutte queste situazioni, così tutti dobbiamo dire con Elisabetta: “Beata colei che ha creduto”, e imparare da quella fede forte e servizievole che ha caratterizzato e caratterizza nostra Madre.
Celebrare Maria è, in primo luogo, fare memoria della madre, fare memoria che non siamo né mai saremo un popolo orfano. Abbiamo una Madre! E dove è la madre c’è sempre presenza e sapore di casa. Dove è la madre, i fratelli potranno litigare ma sempre trionferà il senso dell’unità. Dove è la madre non mancherà la lotta in favore della fraternità. Sempre mi ha impressionato vedere, in diversi popoli dell’America Latina, quelle madri lottatrici che, spesso da sole, riescono a mandare avanti i figli. Così è Maria. Così è Maria con noi: siamo i suoi figli: Donna lottatrice di fronte alla società della sfiducia e della cecità, di fronte alla società della indolenza e della dispersione; Donna che lotta per rafforzare la gioia del Vangelo. Lotta per dare “carne” al Vangelo.
Guardare la Guadalupana è ricordare che la visita del Signore passa sempre attraverso coloro che riescono “a fare carne” la sua Parola, che cercano di incarnare la vita di Dio nelle proprie viscere, diventando segni vivi della sua misericordia.
Celebrare la memoria di Maria è affermare contro ogni pronostico che “nel cuore e nella vita dei nostri popoli batte un forte senso di speranza, nonostante le condizioni di vita che sembrano offuscare ogni speranza”[3].
Maria, perché ha creduto, ha amato; perché serva del Signore è serva dei suoi fratelli. Celebrare la memoria di Maria è celebrare che noi come Lei, siamo invitati a uscire e andare all’incontro con gli altri con il suo stesso sguardo, con le sue stesse viscere di misericordia, con i suoi stessi gesti. Contemplarla è sentire il forte invito ad imitare la sua fede. La sua presenza ci porta alla riconciliazione, dandoci forza per generare legami nella nostra benedetta terra latinoamericana, dicendo “sì” alla vita e “no” a ogni tipo di indifferenza, di esclusione, di scarto dei popoli o di persone.
E non abbiamo paura di uscire a guardare gli altri con il suo stesso sguardo. Uno sguardo che ci fa fratelli. Lo facciamo perché, come Juan Diego, sappiamo che qui c’è nostra madre, sappiamo che siamo sotto la sua ombra e la sua protezione, che è la fonte della nostra gioia, che siamo tra le sue braccia[4].
Donaci la pace e il grano, nostra Signora e Bambina,
una patria che unisca casa, chiesa e scuola,
un pane che sia per tutti e una fede che arda
attraverso le tue mani giunte, i tuoi occhi di stella. Amen.
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[1] R. GUARDINI, Il Signore, Meditazioni sulla vita di Gesù .
[2] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Documento di Aparecida, 48.
[3] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 junio 2007), 536.
[4] Cf. Nicam Mopohua, 119: «No estoy aquí yo, que soy tu madre? ¿No estás bajo mi sombra y resguardo? ¿No soy yo la fuente de tu alegría? ¿No estás en el hueco de mi manto, en el cruce de mis brazos? ¿Tienes necesidad de alguna otra cosa?».

Omelia nella festa
della B. Vergine di Guadalupe
 
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