Città‑Campagna - DIZIONARIO DELLA CULTURA

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Città‑Campagna

C
LA CITTA' UN'ARTE DI VIVERE
La città come fenomeno sociale è studiata nella voce urbanizzazione, ma la città è anche un archetipo della coscienza collettiva: viene rappresentata in opposizione al modo di vita rurale. La campagna e la città diventano allora gli stereotipi della felicità o dell'infelicità dell'uomo. Si tratta di un'ambivalenza che si ritrova in tutte le civiltà ed è interessante interrogarsi sul senso di questa dicotomia città‑campagna.
La città è un simbolo, una rappresentazione collettiva che evoca le aspirazioni o le ansie dell'uomo. E una categoria che esprime il bene o il male della vita sociale, la felicità o l'infelicità degli individui, come dei gruppi. Città e campagna sono, certo, concetti sociologici, ma anche categorie tradizionali per indicare una situazione morale dell'uomo, il luogo della sua elevazione o del suo degrado. Per esempio, la città è considerata da alcuni come la sintesi della civiltà e della cultura dell'uomo. Ma per altri, la città è simbolo della decadenza dei gruppi umani. Per questa ragione, di natura psico‑culturale, i concetti di città e di campagna sono carichi di affettività e portatori di valori. Noi vorremmo, innanzi tutto, analizzare due correnti tipiche: l'una, di ammirazione, l'altra, di pessimismo nei confronti della città. Porremo in seguito a raffronto queste due correnti con le tendenze più recenti dell'urbanizzazione.
E' significativo il notare inizialmente che il primo sociologo dell'urbanesimo, Giovanni Botero (1546‑1617), definisce la città dal suo scopo essenziale, cioè la felicità. All'inizio del suo libro Delle cause della grandezza e della magnificenza delle città scrive: « Si chiama città una riunione di uomini uniti insieme per vivere felici, e si chiama grandezza di una città non la dimensione del luogo o la circonferenza delle mura, ma la moltitudine degli abitanti e la loro potenza ». Che Botero sia stato gesuita, non è la sola ragione che può spiegare la sua preferenza per la città, né lo è quel paragone tra gli Ordini religiosi, per cui i figli di san Bernardo preferivano le vallate, i figli di san Benedetto le montagne, i figli di san Francesco le colline, e i figli di sant'Ignazio le grandi città: «Bernardus valles, montes Benedictus amabat, Franciscus colles, magnas Ignatius urbes».
Botero era, prima di tutto, un uomo del Rinascimento e si ricollega esplicitamente ai filosofi di Atene e di Roma che vedevano nell'urbs e nella polis il culmine delle civiltà e del progresso culturale. Nel primo libro della Politica Aristotele afferma che la città è stata creata, in primo luogo, per rendere gli uomini veramente uomini, e la città sussiste per renderli felici. L'uomo, che trova l'inizio del suo completamento nella famiglia, trova soltanto nella città la propria maturità: l'uomo è dunque un animale politico. Cicerone ragionava allo stesso modo: gli uomini abbandonarono a poco a poco la barbarie, scopersero l'arte della vita comunitaria e crearono le prime città in cui appresero la civiltà e coltivarono le arti liberali. I Romani furono forse i primi a prendere coscienza delle grandi città e ad esprimere a questo proposito il loro «vero senso della grandezza». Il poeta Marziale chiamava Roma la dea delle nazioni, «terrarum dea gentium» . Roma è il prototipo della vita urbanizzata che i Romani vorranno riprodurre su tutte le coste del bacino mediterraneo.
Lo stesso sentimento di venerazione per la città si trova nelle analisi moderne di Mumford e dei suoi discepoli. «La città, afferma Mumford (1938), è, con il linguaggio, la più grande opera d'arte dell'uomo». Egli non esita, certo, a criticare la città industriale, che talvolta chiama «necropolis» o «tirannopolis», ma il suo approccio umanistico si apparenta all'antica sociologia urbana dei classici greco‑romani. Il tipo di città ideale ch'egli considera può essere criticato; e, come vedremo, non è certamente l'immagine che la maggior parte dei sociologi moderni si formano della città.

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