E' prima di tutto per il suo significato umano che il lavoro interessa l'antropologia culturale. Due aspetti meritano particolarmente la nostra attenzione: il lavoro come produttore di cultura e il lavoro come compimento dell'essere umano.
Considerare il lavoro come produttore di cultura è ricordare la prodigiosa avventura dell'homo faber, dell'artigiano, dell'artista, del lavoratore intellettuale, che hanno edificato civiltà e che continuano ad arricchire il patrimonio comune dell'umanità. E grazie al lavoro che la natura viene trasformata ed è messa in valore, che le opere del genio creatore prendono forma e vita, che il tesoro delle conoscenze si arricchisce e si trasmette. La cultura è inconcepibile senza l'apporto del lavoro, dello sforzo intelligente della ricerca, cioè senza un lavoro teso verso il progresso dell'essere umano individuale o collettivo. Queste considerazioni sollevano la questione centrale di sapere a quale condizione il lavoro sia effettivamente creatore di cultura. Non ogni lavoro è necessariamente generatore di cultura, perché alcune attività costituiscono asservimento e sono infraumane e anticulturali. Il problema che qui si solleva è quello del significato culturale attribuito al lavoro. E l'esplorazione antropologica del tema che qui c'interessa e ci introduce nel problema del lavoro come mezzo di compimento per l'uomo.
Significato socio‑culturale
Significato socio‑culturale
Ciò che anzitutto colpisce il sociologo è l'estrema varietà dei significati che riveste il lavoro attraverso le culture storiche: L. H. Parias, 1960; G. Lefranc, 1975. Uno sguardo, anche se rapido, sulle società pre‑industriali può aiutare a cogliere, per paragone, i significati complessi del lavoro per le culture moderne. Nelle società tradizionali, il lavoro, oltre ad essere un mezzo di sussistenza, è un'attività legata all'universo sacro: M. Blin, 1976. Si tratta di una funzione comunitaria che dà forma ad un ordinamento sociale, secondo l'età, i sessi, i mestieri, le capacità di fare.
I Greco‑Romani, come è noto, definivano la cultura superiore con il non‑lavoro, perché il lavoro si identificava con i compiti manuali riservati esclusivamente agli schiavi. L'uomo libero era quello che godeva dell'otium, cioè non era costretto in nessun modo al negotium. Le società divise in caste sono fondate sullo stesso presupposto. In queste culture il lavoro manuale è essenzialmente servile.
Nella tradizione biblica, il lavoro corrisponde alla vocazione originale dell'uomo creato ad immagine di Dio, primo lavoratore, che ha fatto tutte le cose e si è riposato il settimo giorno, introducendo l'alternanza del lavoro e del tempo di riposo. Attraverso il suo lavoro, l'uomo prolunga l'opera del Creatore. Come conseguenza del peccato, il lavoro è associato all'idea di pena, ma è anche partecipazione all'opera di redenzione e di santificazione instaurata da Gesù Cristo, il Falegname, che diceva ai suoi discepoli: « Il Padre mio opera sempre e anch'io opero »: Gv 5, 17. Questa teologia del lavoro (M. D. Chenu, 1955), di cui riparleremo, sottolinea la vocazione universale al lavoro di ogni uomo, che perfeziona se stesso mentre serve i propri fratelli e continua l'opera del Creatore. I primi secoli cristiani e tutto il medioevo fino alle soglie dei tempi moderni hanno vissuto questa concezione tradizionale del lavoro.
Prima del secolo XIX, la popolazione lavoratrice era occupata nelle attività agricola ed artigiana, che rappresentavano la quasi totalità delle forme di lavoro. Con l'avvento della rivoluzione tecnica nei secoli XVIII e XIX, l'uomo lavoratore è proiettato in una situazione drammatica, del tutto nuova, e la questione del lavoro non ha più cessato, da allora, di essere oggetto di preoccupazione per le società industriali e post‑industriali. La condizione inedita in cui vengono a trovarsi i lavoratori solleva problemi economici, psicologici e culturali estremamente complessi che richiedono un perseverante atteggiamento di ricerca. In questo spirito di ricerca aperta, proponiamo alcuni punti base per l'esplorazione del nuovo senso del lavoro in un mondo in accelerata evoluzione.
L'avvento della società industriale portò la razionalizzazione, la specializzazione della produzione, la divisione dei compiti e, fatto massiccio, il lavoro venne nettamente distinto dal capitale, ciò che ebbe per effetto di conferire storicamente al lavoro una posizione subordinata e antinomica. Il lavoro veniva, così, ridotto al suo valore di mercanzia che l'operaio vende contro pagamento. L'espansione del sistema salariale, in mancanza di regole contrattuali e di norme legali, generò, nella nascente società industriale, una situazione di sfruttamento abusivo e di intollerabile miseria. Il lavoro, da quel momento, venne ad identificarsi con l'alienazione dell'uomo. La condizione dei lavoratori suscitò un naturale movimento di difesa e il sorgere di una classe antagonista nei confronti dei detentori di capitale. Fu l'inizio delle associazioni e dei sindacati operai, che organizzarono i loro interventi, ancora presenti oggi, nei confronti degli industriali e dei poteri pubblici.
Karl Marx e Friedrich Engels si fecero presto gli interpreti ideologici e militanti della protesta e della rivolta delle masse operaie. La concezione materialistica del lavoro e della lotta di classe, che è a fondamento dell'ideologia comunista, diede nascita ai regimi collettivisti che avrebbero diviso le vecchie civiltà occidentali e avrebbero finito per rivelare infine il loro carattere utopico e le loro contraddizioni con il conseguente crollo delle società a regime marxista.
Impatto della nuova evoluzione industriale
Impatto della nuova evoluzione industriale
Il declino della concezione marxista del lavoro coincide, nel tempo, con una nuova rivoluzione industriale, le cui conseguenze culturali sono ancora di difficile valutazione, ma le cui ripercussioni ci si rivelano progressivamente. Da una parte, l'estensione del benessere nelle società industriali ha avuto per conseguenza che i lavoratori accettano sempre meno d'essere considerati una classe a parte e non si distinguono più dall'insieme dei cittadini, degli elettori, dei consumatori, dei beneficiari della società industriale. Questa evoluzione culturale ed economica ha messo in crisi la strategia marxista caratterizzata dalla lotta di classe. I sindacati operai stessi subiscono un mutamento profondo su cui ritorneremo.
Le società industriali hanno prodotto una cultura dei consumi in cui il lavoratore, pur godendo delle meravigliose produzioni e dei progressi della nuova economia, è nel medesimo tempo sottoposto ad un nuovo tipo di alienazione, cioè ad una cultura che privilegia una forma di consumo di carattere materialistico ed edonistico. Questo modello di società esercita anche un immenso fascino su tutte le società in via di sviluppo, sollevando nello stesso tempo le speranze e le invidie dei paesi ex‑comunisti. I lavoratori dell'intero mondo sono segnati dal mito del consumo.
Un'altra caratteristica evoluzione è rappresentata dall'entrata massiva delle donne nel mercato del lavoro retribuito. Dall'inizio del secolo, e soprattutto dopo l'ultima guerra mondiale, un numero crescente di donne cercano sia il reddito di un impiego che il proprio sviluppo umano attraverso il lavoro e il contributo ch'esse apportano è effettivamente irrinunciabile sul piano dell'edificazione della società moderna. D'altra parte, la dissociazione tra lavoro e impegni familiari ha posto problemi di carattere educativo, psicologico, demografico che in Occidente vanno aggravandosi. Se, infatti, le economie moderne offrono impiego alle donne che scelgono di lavorare fuori casa, ciò va a grave sfavore delle donne che preferirebbero dedicarsi esclusivamente alla propria famiglia. Le donne che lavorano sono, poi, in maggioranza costrette ad uno stile di vita in cui i compiti domestici si sommano a quelli del lavoro salariato.
Del resto, negli standards di vita che la cultura dominante propone, l'opinione pubblica giudica praticamente indispensabile l'apporto combinato dei due salari, quello del marito e quello della moglie. Ciò significa che la cultura del lavoro che prevale nelle società industriali è una cultura che, se non è antifamiliare, è almeno poco attenta alla famiglia. In alcuni paesi si va delineando un movimento tendente ad armonizzare maggiormente le politiche del lavoro con quelle familiari. La società del benessere è invitata a ridefinirsi con parametri che non siano quelli dell'esclusivo vantaggio economico.
I mutamenti più recenti mettono in causa il sogno della società industriale che stabiliva un rapporto quasi necessario tra il lavoro e il benessere. La rivoluzione tecnica ed elettronica, che ha introdotto la robotica, l'informatica e la burotica, ha ora per effetto di ridurre la parte costrittiva del lavoro umano nella produzione. L'operaio, anche quello specializzato, è sostituito da una macchina che esegue ormai le funzioni umane con maggiore precisione e a minor costo. Questa è la nuova forma di alienazione che colpisce il lavoratore.
Da molti indizi si deduce che il mondo operaio dovrà, nel prossimo avvenire, affrontare una ridefinizione del lavoro profonda quanto quella del secolo XIX. Il sindacalismo perde il suo ascendente nel sistema economico in cui le professioni e i mestieri tradizionali cedono il loro ruolo di protagonisti di fronte alla produzione automatizzata e a compiti sempre più specialistici. I concetti di crescita economica, di pieno impiego ed anche quello di impresa e di economia nazionale sono entrati in crisi e conducono gli economisti e i politici a riscoprire un nuovo senso dello sviluppo umano, della solidarietà e dell'interdipendenza dei popoli. Il crescente potere delle imprese multinazionali ha rivoluzionato l'economia politica tradizionale; il lavoro e il capitale s'inseriscono ormai in un sistema di interconnessione e di rapidi mutamenti. La mobilità dei lavoratori e quella dei capitali è condizionata dalla mondializzazione delle economie e delle culture. Le frontiere nazionali conserveranno i loro limiti, ma saranno sempre più permeabili al flusso degli scambi, degli investimenti, delle innovazioni tecnologiche. La grande sfida del ventunesimo secolo sarà, senza dubbio, quella della condivisione e della ridistribuzione del lavoro in economie regionali e mondiali che avranno la gestione dei capitali e delle risorse dell'umanità con obbiettivi supernazionali. Il lavoro entra in una nuova era di solidarietà nella quale diventerà obbligo includere le minoranze, i disoccupati, i giovani, i popoli in sviluppo.
Le economie sia liberali che collettiviste del ventesimo secolo sono state, certo, creatrici di ricchezza, ma al prezzo di sacrifici diventati insopportabili, come testimonia il grande numero di coloro che rimangono tagliati fuori dal circolo attivo dell'economia: disoccupati, emarginati, minoranze, rifugiati, giovani senza prospettive d'avvenire, incapaci d'inserirsi con dignità nella vita sociale.
Un concetto ampliato di lavoro
Un concetto ampliato di lavoro
E dunque necessario pensare ad un mutamento del concetto di lavoro. Alcuni propongono che il lavoro disponibile sia ripartito diversamente, per permettere ad un maggiore numero di persone di lavorare a tempo parziale. Altri, immaginano soluzioni più radicali: il sistema economico dovrebbe cercare di finanziare nuovi impieghi - non produttivi secondo i criteri vigenti - ma utili ad un miglioramento sociale: animazione culturale, restauro di luoghi ed ambienti urbani, protezione dell'ambiente, risanamento ecologico, creazione artistica, assistenza alle persone anziane, ai malati, agli handicappati, rivalutazione dei lavori domestici ed educativi, aiuto al terzo mondo. Già i governi favoriscono lo sviluppo di questo genere di attività e suscitano modi utili per il finanziamento occorrente: progetti comunitari, centri per il tempo libero, programmi culturali, assistenza sociale. Ma è la società industriale nel suo insieme che deve reinventare un nuovo stile di occupazione per tutti che sia rimunerata e socialmente utile.
Il sistema economico deve ormai progettare un tipo di lavoro i cui modi, tempi e obbiettivi siano profondamente ridefiniti. Le condizioni economiche di oggi lo richiedono, ma anche le nuove esigenze culturali: la formazione permanente, l'emergere della solidarietà, la riscoperta della famiglia, il bisogno del tempo libero, la rivalutazione del volontariato.
La ridefinizione del senso del lavoro nella nostra epoca si presenta dunque come uno dei compiti principali della ricerca culturale. Le soluzioni, certo, dipendono dai condizionamenti economici e tecnici, ma, alla luce delle precedenti considerazioni, alcuni imperativi s'impongono urgentemente alla responsabilità dei nostri contemporanei.
Orientamenti dell'avvenire
Orientamenti dell'avvenire
L'esperienza storica dell'ultimo secolo, esaminata alla luce della riflessione etica e del pensiero cristiano, suggerisce alcuni orientamenti che pensiamo andranno imponendosi:
1) Innanzi tutto, è la persona del lavoratore che deve essere affermata, come principio primo di ogni riforma socioeconomica e di ogni promozione culturale attraverso il lavoro. Il lavoratore è più importante di tutte le sue produzioni, vale a dire che l'aspetto soggettivo del lavoro ha eticamente la priorità sul suo aspetto obiettivo.
2) Se è con il proprio lavoro che l'operaio guadagna la propria sussistenza, egli cerca anche e soprattutto, attraverso il lavoro, il proprio completamento umano. E, questa, un'aspirazione della cultura moderna che spiega, per esempio, come numerosi disoccupati, i giovani soprattutto, si rifiutino di prestare la loro opera in lavori giudicati non umanizzanti.
3) Il regime di lavoro del futuro non potrà più essere elaborato facendo astrazione dalla famiglia, dai suoi diritti, dal suo sviluppo nella società, come pure dalle esigenze dei ruoli paterni e materni. Il futuro dell'economia è legato al futuro della cultura e della famiglia.
4) I sistemi economici devono rivalutare il concetto di produttività del lavoro per includervi il servizio e la dedizione apparentemente non calcolabili in salario, ma indispensabili al miglioramento dell'ambiente comunitario e naturale.
5) Un nuovo senso della solidarietà s'impone tra tutti i responsabili della vita socioeconomica, per definire il lavoro tenendo conto non soltanto delle nazioni isolate, ma anche delle interdipendenze regionali ed internazionali ed ampliando i progetti di crescita a misura dello sviluppo solidale di tutti i paesi.
Questi orientamenti sono carichi di significato e riguardano l'avvenire dell'uomo e della cultura. Essi richiedono un atteggiamento di ricerca e di riflessione comuni in cui siano convocate tutte le competenze. E l'invito fatto a tutti i cristiani e a tutte le persone di buona volontà da Giovanni Paolo II nella sua enciclica Laborem exercens (1981): « Il lavoro umano è una chiave, e probabilmente, la chiave essenziale di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell'uomo. E se la soluzione o, piuttosto, la graduale soluzione della questione sociale, che continuamente si ripresenta e si fa sempre più complessa, deve essere cercata nella direzione di «rendere la vita umana più umana» (GS 38), allora appunto la chiave, che è il lavoro umano, acquista un'importanza fondamentale e decisiva »: n. 3.
La motivazione più profonda per il credente è di considerare il lavoro come partecipazione all'opera del Creatore, quale ce la rivela il primo capitolo della Genesi e che Giovanni Paolo II chiama il « primo Vangelo del lavoro ». I nostri contemporanei sono chiamati a costruire una nuova cultura del lavoro in cui l'uomo, costretto per natura alla pena del proprio lavoro, nutra, per mezzo di questo, la propria speranza perché convinto di avere un ruolo personale nell'opera rinnovatrice e redentrice del Cristo. Questa cultura del lavoro, se sarà condivisa dalle nuove generazioni, potrà suscitare le solidarietà indispensabili allo sviluppo di tutti gli individui e di tutti i paesi. Mai la cooperazione di tutti i lavoratori è stata così necessaria al progresso economico e culturale della famiglia umana.
Vedi
Industrializzazione
Tempo libero
Società post‑industriale
Bibl.: Giovanni Paolo II Enciclica Laborem exercens, 1981. Enciclica Centesimus Annus 1991. M. Blin 1976. H. Carrier 1990b. M.D. Chenu 1955, 1966. Commissione Pontificia Iustitia et Pax 1982. A. Cotta 1987. S. Erbes‑Seguin 1988. G. Friedmann 1963. A.G. Haudricourt 1988. G. Lefranc 1975, 1978. L. H. Parias 1960. K. Erikson et al. 1990. A. Jacob 1995. Varios 1980, 1984.