Tra tutte le scienze umane, l'antropologia è la disciplina che ha studiato il fatto culturale in modo più esteso e più profondo. Se si ritracciano gli sviluppi dell'antropologia, balzano con chiarezza la realtà e il concetto stesso di cultura. L'antropologia, o la scienza dell'uomo, risale lontano nella storia intellettuale dell'umanità che da sempre è stata interessata ad osservare i gruppi nelle loro straordinarie diversità. Erodoto (484‑425 a.C.) faceva già dell'antropologia avanti lettera, quando descriveva gli usi, i costumi, la lingua, le leggi, le credenze dei popoli stranieri alla Grecia. Alcuni fanno risalire la parola antropologia ad Aristotele, ma sembra più probabile che i tre termini « antropologia », « etnologia » e « etnografia » siano apparsi nelle lingue europee tra il 1785 e il 1815. Di fatto, è nel secolo XIX che l'antropologia si è costituita come disciplina grazie ai ricercatori britannici, tedeschi e americani. Le idee evoluzioniste, relativiste e comparativiste dell'epoca hanno segnato molti dei primi lavori. Ma l'antropologia diventa poi più critica, si diversifica in molte scuole, ed è oggi la disciplina impegnata nella ricerca di convergenze metodologiche che possano mostrare in contemporanea la varietà delle culture storiche e l'universalità della civilizzazione umana. Il moltiplicarsi degli appellativi sta a sottolineare il destino contrastato di questa scienza da un secolo: etnologia, etnografia, antropologia fisica, antropologia sociale, antropologia culturale, antropologia strutturale.
Distinguiamo, per prima cosa, l'« antropologia fisica » dagli altri rami dell'antropologia: si tratta dello studio degli aspetti corporei, morfologici e fisiologici degli individui e dei gruppi umani, secondo la loro localizzazione geografica e climatica, la loro storia naturale, le loro consuetudini alimentari, la loro età, il loro sesso, la loro eredità. Considerata per molto tempo un ramo scientifico separato, l'antropologia fisica è ora messa in relazione con i comportamenti, la psicologia, le strutture sociali e la cultura dei gruppi umani. Questo significa che lo sviluppo fisico, sociale e culturale dell'essere umano è oggi percepito meglio in tutte le sue interdipendenze, anche se l'antropologia fisica si giustifica ancora come metodo distinto.
L'antropologia come scienza sociale
E' a questo livello che l'antropologia si è profondamente diversificata, prima di orientarsi verso un movimento di sintesi che continua sempre tra gli esponenti di due principali tendenze: l'antropologia culturale e l'antropologia sociale. I rapporti tra loro rimangono ancora laboriosi. Così lo indica Paul Mercier: « L'antropologia sociale e l'antropologia culturale costituiscono una casa comune per molte scuole di pensiero. Le diverse stanze di questa casa comunicano male e talvolta non comunicano affatto. Coloro che vi abitano non si mettono d'accordo per dire: questa è la facciata, questa è la stanza principale »: 1968. Esaminiamo separatamente i due approcci, culturale e sociale, dell'antropologia. Il primo ha per centro la considerazione dei modelli culturali, il secondo ha per centro l'analisi delle strutture sociali.
Antropologia culturale
Antropologia culturale
L'antropologia culturale è rappresentata da grandi nomi quali quelli degli Americani Alfred Louis Kroeber (1876‑1960) e Bronislaw Malinowski (1884‑1942) che esercitarono un'influenza preponderante soprattutto tra gli antropologi americani. Una delle migliori esposizioni del metodo culturale è quella di A.L. Kroeber e del suo collega Clyde Kluckhohn. Tracciamone le linee essenziali. L'oggetto dell'antropologia secondo Kroeber e Kluckhohn (1952) è lo studio della cultura analizzata partendo dai modelli tipici di comportamento di un gruppo umano.
La cultura è l'insieme dei comportamenti appresi e trasmessi in un gruppo; ma non basta osservare i comportamenti: bisogna proseguire la ricerca fino a scoprire i modelli delle condotte, i codici, le regole di comportamento che rivelano « le tendenze verso l'uniformità nelle parole, nelle azioni, nella creazione dei gruppi umani ». Il metodo di analisi culturale si apparenta alla psicologia tedesca della « Gestalt » (la forma) o alla storia culturale.
I tratti culturali più semplici da osservare in un gruppo corrispondono ai modi concreti di vestirsi, di alimentarsi, di lavorare, di conversare. Ad un livello più complesso, si trovano la lingua, le tecniche, l'organizzazione sociale, le leggi, la filosofia, la religione, le arti.
Alcuni dei tratti culturali godono di una grande stabilità e persistono attraverso i cambiamenti che impone la storia: la lingua, l'alfabeto, il senso del diritto, la religione, il monoteismo ne sono esempi noti. Il processo di deriva che colpisce le culture tocca inizialmente gli elementi particolari ed esterni che caratterizzano i modi di vita, ma i modelli culturali d'insieme resistono di più ai cambiamenti e non si trasformano che lentamente, tendendo, in generale, a ritrovare una nuova stabilità.
I modelli culturali obbediscono alla logica interna d'ogni gruppo umano che vive in una data epoca. La cultura non è determinata dall'esterno, anche se bisogna riconoscere i condizionamenti che provengono dalla biologia, dalla geografia, dalla psicologia ed anche i particolari tratti di personalità dei membri del gruppo.
L'unità d'osservazione dell'antropologia culturale si è notevolmente allargata dal tempo dei precursori che limitavano i loro studi alle società dette primitive. Oggi l'unità culturale, considerata dall'antropologia, dipende dal livello d'analisi che intende abbracciare. Può trattarsi della cultura occidentale greco‑romana, della cultura della Foresta Nera del 1900, ecc. Compete all'antropologia giustificare, più oggettivamente possibile, l'area socio‑culturale dei suoi studi.
L'obbiettivo dell'antropologia culturale consiste dunque nello scoprire le caratteristiche dei gruppi umani analizzando i loro modelli tipici di comportamento, distinguendo i loro tratti primari o secondari al fine di comprendere la stabilità, l'evoluzione e i mutamenti di una configurazione culturale, frutto di un'esperienza collettiva unica.
I modelli di comportamento caratteristici di un gruppo umano sono appresi per mezzo di simboli, sono trasmessi da una generazione all'altra come portatori di valori e ispiratori di opere immateriali e materiali. Provenendo dall'azione umana, i modelli di comportamento costituiscono contemporaneamente un quadro che condiziona l'azione futura dei membri di un gruppo.
Gli elementi descrittivi forniti precedentemente permettono di comprendere meglio la definizione della cultura, spesso citata, di Kroeber e Kluckhohn (1952) ed elaborata dopo l'esame di centinaia di definizioni ch'essi avevano pazientemente collezionato ed analizzato: « La cultura consiste in schemi, espliciti o impliciti, di e per il comportamento, acquisiti e trasmessi con la mediazione di simboli: essi costituiscono la realizzazione distintiva di gruppi umani, incluse le loro espressioni in artefatti; il nucleo essenziale della cultura è costituito da idee tradizionali (cioè storicamente derivate e selezionate) e specialmente dai valori connessi: i sistemi culturali possono essere considerati, da una parte, come prodotti dell'azione e, dall'altra, come elementi condizionanti l'azione futura ». Altri rappresentanti noti dell'antropologia culturale americana sono spesso citati come, ad esempio, Ruth Benedict (1934), Melville J. Herskovits (1955). Ricordiamo soprattutto Bronislaw Malinowski, il cui articolo classico sulla cultura (1931) ha influenzato in maniera duratura la sociologia culturale.
Antropologia sociale
Antropologia sociale
La scuola avversaria - la parola non è troppo forte - parte da una prospettiva tutta diversa: quella delle strutture sociali. Il nome più citato è quello dell'antropologo britannico Alfred R. Radcliffe‑Brown (1881‑1955), seguito da numerosi antropologi inglesi e dalla maggior parte dei sociologi americani. La scuola inglese conta molti antropologi rinomati: M. Fortes, J. Goody, J. Middleton, M. Douglas, S.F. Nadel, in particolare, Edward Evans‑Pritchard, professore a Oxford, il cui lavoro postumo ritraccia la storia del pensiero antropologico (1981). Ma è Radcliffe‑Brown che ha formulato meglio gli orientamenti caratteristici dell'antropologia sociale.
Per Radcliffe‑Brown (1952) l'oggetto dell'antropologia è l'analisi della struttura sociale, cioè la rete delle relazioni sociali che compone i gruppi umani, le classi, i ruoli sociali. L'antropologia, secondo questa scuola, non è prima di tutto lo studio della cultura; Radcliffe‑Brown stesso è arrivato fino ad evitare la parola cultura, anche se effettivamente tratta della cultura indirettamente attraverso un'altra terminologia, per esempio, quando riconosce il ruolo dei « costumi sociali », le « regole di condotta », i « valori ed interessi » e i « modelli di comportamento nei rapporti sociali »: 1952.
L'antropologia sociale, senza negare il ruolo della cultura, subordina, tuttavia, l'elemento culturale alla struttura sociale, mentre è il contrario che si verifica nell'antropologia culturale, nella quale la struttura sociale è subordinata al dato primo della cultura.
L'antropologia sociale si fonda sull'analogia biologica per discernere le società nella loro morfologia (le reti di relazioni) come nella loro fisiologia (il sistema di funzionamento dei rapporti sociali).
Diamo alcuni esempi di relazioni sociali osservate: i rapporti padre‑figlio, venditore‑compratore, padrone‑servitore. I sistemi di parentela offrono il campo di osservazione ideale per scoprire le relazioni sociali nella loro complessità e nella loro interdipendenza.
L'antropologia sociale, ai suoi inizi, si limitava all'osservazione delle società semplici o primitive, ma progressivamente ha orientato la sua attenzione al di là degli « isolati primitivi » per interessarsi ad insiemi sempre più vasti: villaggi, paesi, imperi. Radcliffe‑Brown ammette che l'antropologo può studiare sia un villaggio cinese sia una parte della Cina o l'impero britannico, come esempi di società. La questione sta nel reperire il sistema strutturale, cioè la rete dei rapporti sociali che collegano tra loro le persone, i gruppi e i popoli sotto osservazione.
Le due tesi, precedentemente esposte, sono oggi raramente sostenute nel loro tenore originale ed esclusivo, ma meritano d'essere ricordate perché sottintendono ancora concezioni complementari della cultura, intesa sia come « modelli di comportamento », sia come « strutturazione dei rapporti sociali ». In ogni caso, le discussioni si sono calmate dopo che il Presidente degli antropologi americani, A.L. Kroeber, e il Presidente dei sociologi americani, Talcott Parsons, hanno congiuntamente firmato una dichiarazione d'intesa nel 1958: A. Kroeber and Talcott Parsons 1958.
Verso un'antropologia integrale.
Dopo più di mezzo secolo di aspre polemiche, gli antropologi delle diverse obbedienze tendono ora ad attenuare le loro differenze per sottolineare la complementarità dei loro approcci. Le culture e le strutture sociali, in conclusione, non si comprendono che nella reciprocità dei loro dinamismi. Tutti, praticamente, riconoscono l'utilità di studiare i modelli culturali che sono alla base delle strutture sociali, delle famiglie, dei villaggi, delle tribù, delle caste, delle città, delle regioni. La cultura s'incarna nelle diverse istituzioni sociali e le istituzioni, a loro volta, sono rivelatrici e creatrici di cultura. R.W. Firth (1951) ha bene espresso la complementarità dei due punti di vista: « Se la società è vista come una organizzazione di individui che hanno un proprio stile di vita, la cultura è precisamente questo modo di vita. Se la società è vista come un insieme di relazioni sociali, allora la cultura è il contenuto di queste relazioni. La società accentua la componente umana, l'insieme delle persone e le loro reciproche relazioni. La cultura insiste sulla componente delle risorse accumulate, immateriali o materiali, che il gruppo riceve in eredità, che utilizza, trasforma, arricchisce e trasmette ». In altri termini, cultura e struttura sociale non possono esistere indipendentemente l'una dall'altra in una società umana, perché esse sono mutualmente dipendenti, e manifestano insieme i comportamenti degli individui e il dinamismo del sistema sociale.
L'uomo, come animale sociale e creatore di simboli, non può essere ridotto ad uno schema di analisi parziale. L'antropologo deve prestare uguale attenzione ai modelli culturali e alle strutture sociali. Ciò che è in causa, è l'interpretazione dei rapporti tra la cultura e le istituzioni. Claude Levi‑Strauss ha descritto bene i punti di vista che si affrontano: « L'uomo può essere definito come animale che fabbrica degli utensili o come animale sociale. Se lo si considera come animale che fabbrica degli utensili si parte dagli utensili e si va verso le istituzioni in quanto utensili che rendono possibili le relazioni sociali. E l'antropologia culturale. Se lo si considera come animale sociale, si parte dalle relazioni sociali per raggiungere gli utensili e la cultura, nel senso ampio del termine, in quanto mezzo attraverso il quale si mantengono le relazioni sociali »: J. Poirier 1968, p. 882.
Questa apertura alla totalità del fatto sociale ha favorito una interdisciplinarietà dell'antropologia, come già aveva lasciato intravvedere il metodo comprensivo di Marcel Mauss (1872‑1950), fondatore dell'Istituto di Etnologia dell'Università di Parigi, che cercava di studiare le società umane nell'integralità del loro sistema sociale e culturale e della loro storia: cioè rispettando il fenomeno sociale totale nelle sue componenti geografiche, economiche, politiche, estetiche, religiose. In questo spirito, gli antropologi attingono, ormai, alla linguistica, alla paleontologia, alla preistoria, alla biologia, alla psicologia, alla psicanalisi, all'estetica, alla storia delle religioni, all'ecologia, i punti di vista che permettono di cogliere meglio il segreto delle culture. L'antropologia, in questo modo, si sviluppa come una etno‑storia, una etno‑psicologia, una etno‑linguistica, una etno‑economia, una etno‑scienza, una etno‑medicina, ecc.
La convergenza delle scienze è venuta ad allargare, talvolta in maniera sorprendente, la nostra comprensione dell'antropologia. Le ricerche in biologia, per esempio, fanno apparire una diversificazione quasi contemporanea del patrimonio genetico dei popoli e delle loro lingue. Come osserva Luca Cavalli‑Sforza (1966), « i geni, le popolazioni e le lingue sembrano essersi diversificati simultaneamente, durante migrazioni cominciate probabilmente in Africa, passando dopo in Asia, poi in Europa, e nel Nuovo Mondo e nel Pacifico ».
Tra gli sviluppi particolarmente significativi, menzioniamo la scuola di antropologia psicologica che concentra le sue ricerche sulla cultura e la personalità, nella linea delle esplorazioni di Ruth Benedict, di Margaret Mead, di Ralph Linton, di Edward Sapir, di Abraham Kardiner, di Clyde Kluckhohn. La « personalità di base », secondo Kardiner, o « i modelli di cultura » (patterns of culture) di Ruth Benedict (1934) ne sono delle caratteristiche illustrazioni. I tratti di personalità che emergono come più comuni in una società rivelano a che punto le persone si formino attraverso configurazioni culturali tipiche, i cui valori, credenze e norme socializzano il bambino dalla più tenera età e condizionano la personalità di base di una società.
Nuove prospettive si sono dunque aperte all'antropologia con l'analisi estesa ai fenomeni psicologici, economici, religiosi, ecologici, tecnici, geografici, biologici. Sia la complessità come la continuità dei dati antropologici sono messe in luce e conducono ad ulteriori interrogativi sulla condizione sociale degli esseri umani.
Antropologia strutturale
Antropologia strutturale
Un nuovo punto di vista è offerto dall'antropologia strutturale, rappresentata, come è noto, da Claude Lévi‑Strauss in Francia, che cerca di sintetizzare e superare gli approcci di Kroeber e di Radcliffe‑Brown, ponendosi il problema del « senso » delle culture e del significato latente delle realtà socio‑culturali. La linguistica strutturale gli permette di analizzare le forme di comunicazione rivelatrici di una cultura ed egli si chiede se non esista una struttura mentale universalmente valida per tutta l'umanità. Due tipi di analisi illustrano il suo metodo: l'esame semantico dei vincoli di parentela e quello dei miti. Le strutture di parentela, egli osserva, rappresentano un modo di comunicazione per gli individui, le famiglie e la società. Il divieto dell'incesto, per esempio, stabilisce delle regole precise concernenti lo scambio dei congiunti. Questo equivale ad un modo particolare di comunicare tra parenti. Ciò che qui bisogna notare è meno il ruolo attribuito ad un sesso o all'altro, che lo sforzo semantico per comprendere il senso di un modo di comportamento collettivo. Altro esempio, l'analisi dei miti, il cui significato inconscio non deriva, secondo il suo pensiero, da un preteso « pensiero prelogico », ma piuttosto da un sistema di espressione sociologico, culturale, cosmologico, a base di opposizioni binarie (acqua‑fuoco, silenzio‑rumore, cotto‑crudo) o di regole codificate, di cui l'antropologo deve decifrare gli elementi significativi, come in uno spartito musicale: musica e miti sono, d'altra parte, dei « congegni per eliminare il tempo » che permettono di superare « l'antinomia del tempo storico » e del permanere delle società. L'antropologo si fa analista e, egli osserva, « c'è già della psicanalisi nei miti »: La potière jalouse, Paris, 1986. Queste teorie hanno suscitato un ampio dibattito in Europa e negli Stati Uniti ed hanno incontrato obiezioni soprattutto per il fatto che Lévi‑Strauss sembra trascurare troppo l'individuo libero in seno al dinamismo sociale e minimizzare il ruolo creativo della storia, come gli ha rimproverato Jean‑Paul Sartre. Il suo intellettualismo e il suo entusiasmo per l'« Uomo » non gli fanno forse trascurare « tutti gli uomini », come nota Clifford Geertz: 1973, cap. 13? Non è questo il luogo per inoltrarci nella discussione; ci basti sottolineare i tentativi fatti dall'antropologia moderna per approfondire il significato del fatto culturale.
Secondo gli strutturalisti, l'antropologo, quando osserva una società, deve scoprire « come questa cosa parli » e cogliere il senso che gli uomini inconsciamente danno alla loro vita in comune. Compito sovrumano, si dirà, ma la vivacità dei dibattiti provocati dai seguaci di un'antropologia comprensiva, guidata in Francia da un Lévi‑Strauss o un André Leroi‑Gourhan, etnologo della preistoria, o un Clifford Geertz negli Stati Uniti, dimostra un'intenzione che certamente si rivelerà feconda: quella di approfondire, evitando ogni riduzionismo ed ogni falsa speculazione, ciò che significa, al di là delle apparenze, la cultura umana nella storia delle società.
Una antropologia integrale nascerà in un avvenire che possiamo prevedere? La questione ha almeno il merito di essere stata posta con insistenza da una nuova generazione di antropologi. All'inizio del secolo, le teorie universalistiche erano state scartate dai rappresentanti di un'antropologia relativista, monografica, storicista, influenzata da quel pioniere, d'altra parte molto fecondo, che fu Franz Boas (1858‑1942), un americano di origine tedesca. Ma oggi, con un ritorno paradossale delle cose, la tesi dell'unità del genere umano ritorna attuale. Essa era già stata postulata da Edward Tylor (1832‑1917) nella sua celebre definizione di cultura del 1871. Per questo autore inglese bisogna « considerare il genere umano come naturalmente omogeneo, anche se posto a livelli diversi di civilizzazione ». Questo approccio universale ha fatto strada e suscita, in antropologia e in sociologia, una copiosa letteratura che permette ora di meglio percepire i rapporti che esistono tra la molteplicità delle forme culturali e la cultura umana semplicemente detta. Lévi‑Strauss lo spiega così: « Ciò che si chiama una cultura è un frammento di umanità che, dal punto di vista della ricerca in corso e della scala a cui è riportata, presenta, in rapporto al resto dell'umanità, delle discontinuità significative »: 1958; sull'opera di Lévi‑Strauss, vedere M. Hénaff, 1991.
Seguendo questo orientamento, l'antropologia diventa una disciplina essenzialmente aperta alla comprensione del fatto culturale, concepito come l'espressione di un progresso sempre incompiuto dell'uomo. Questo atteggiamento è stato reso possibile da un'interiorizzazione dell'analisi antropologica, che non cerca più di « spiegare » le culture con fattori estrinseci, ma che preferibilmente si dedica a « comprendere » dall'interno la cultura come la più alta creazione di un gruppo. L'antropologo cerca di cogliere il significato che riveste una cultura viva partendo dal punto di vista dei membri di una società. Questa prospettiva, come ha efficacemente notato Clifford Geertz, apre un orizzonte nuovo all'antropologia. Questa vede l'uomo essenzialmente come un animale creatore di simboli e ricercatore di significati: « Il bisogno di trovare un senso all'esperienza, di darle ordine e forma, è con evidenza altrettanto imperioso e pressante di quanto lo siano le necessità biologiche più familiari ». E attraverso i simboli, l'arte, la religione, l'ideologia che l'uomo esplora il significato della vita e del mondo. Geertz conclude che si sbaglierebbe se si cercasse d'interpretare l'arte e la religione diversamente da « uno sforzo per dare orientamento ad un essere che non può vivere in un mondo che non è capace di comprendere ». La cultura non è il frutto di determinismi più o meno inconsci, è il dinamismo stesso dell'umanizzazione dell'uomo da parte dell'uomo: « Senza l'uomo non c'è cultura; ma è vero anche e significativo dire: senza cultura non c'è l'uomo »: C. Geertz, 1973, pp. 5, 140. E questa la posizione sviluppata da Giovanni Paolo II davanti all'unesco il 2 giugno 1980; egli ha riassunto il suo discorso con queste parole: « Sì, l'avvenire dell'uomo dipende dalla cultura ».
Vedi
Etnologia
Cultura
Bibl.: C.R. Badcock 1980. H. Bernard 1988. F. Boas (1896) 1955. C Camilleri 1985. E. Evans‑Pritchard 1981. P. Farb e G. Armelogos 1981. R.W. Firth 1951. C. Geertz 1973, 1987. M. Hénaff 1991. M.J. Herskovits 1955. A.L. Kroeber and C. Kluckhohn 1952. A.L. Kroeber and T. Parsons 1958. C. Lévi‑Strauss 1949, 1958, 1984, 1990. R. Manners and D. Kaplan 1968. B. Mazlish 1989. P. Mercier 1968. J. Poirier 1968. A.R. Radcliffe‑Brown 1952. J. Ries et al. 1992. G. Rosolato 1993.