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POETI CONTEMPORANEI


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7. Fabrizio De André: lo splendore del dimesso
Tra i maggiori poeti del nostro tempo vanno annoverati senza dubbio alcuni cantautori. Un mondo, un pianeta antico e moderno, che unisce la poesia della musica alla musica della poesia. Hanno uditori sconfinati, infinitamente più vasti del piccolo popolo dei lettori di libri. I loro versi sono imparati a memoria e cantati, più di quelli di qualsiasi altro autore, si incidono nell'immaginario collettivo, fanno scuola e tendenza. Tra questi Fabrizio De André occupa un posto particolare con l'album La Buona Novella. Ballate dal sapore antico, popolare, struggente senza mai retorica, semplice come solo le cose vere sanno esserlo. Il linguaggio dotto cede il posto al linguaggio piano e popolare della ballata, alla dolcezza mite delle rime baciate. Ma le sue canzoni privilegiano anche la ripresa di alcuni temi evangelici forti, come ad esempio il Gesù delle strade, dei vicoli, sempre lontano dai palazzi; il Gesù dei pubblicani, dei ladri, delle prostitute che precedono i pii e gli ipocriti nel regno, il Dio dei piccoli. In particolare, la ripresa dei temi del corpo e della vita quotidiana fanno della ragazza di Nazaret una sorella d'umanità. Ecco come è raccontata la gravidanza di Maria:
E lo stupore nei tuoi occhi / salì dalle tue mani / che vuote intorno alle sue spalle / si colmarono ai fianchi / della forma precisa di una vita recente / di quel segreto che si svela / quando lievita il ventre./ E te ne vai Maria, tra l'altra gente / che si raccoglie intorno al tuo passare / siepe di sguardi che non fanno male / nella stagione di essere madre. Sai che fra un'ora forse piangerai / poi la tua mano nasconderà un sorriso / gioia e dolore hanno il confine incerto / nella stagione che illumina il viso / Ave Maria adesso che sei donna / ave alle donne come te Maria!/ femmine un giorno per un nuovo amore / povero ricco umile o messia / femmine un giorno e poi madri per sempre / nella stagione che stagione non sente.
Qui il cantautore anticipa, incredibilmente, una delle intuizioni del mistico Giovanni Vannucci: «a tutti gli atomi di Maria sparsi nel mondo che hanno nome donna». Il vero poeta è non solo un teologo, ma un mistico. Così quando immagina, nella casa di Giuseppe, Maria che conserva e medita nel cuore:
        ma l'eco lontana di brevi parole
        ripeteva di un angelo la strana preghiera
        dove forse era sogno, ma sonno non era.
        Lo chiameranno figlio di Dio,
        parole confuse nella mia mente,
        svanite in un sogno, ma impresse nel ventre.
        E la parola ormai sfinita si sciolse in pianto,
        ma la paura dalle labbra si raccolse negli occhi
        e lì si consuma nell'attesa di uno sguardo indulgente.
        E tu piano posasti le dita sull'orlo della sua fronte:
        i vecchi quando accarezzano
        hanno il timore di far troppo forte.

Molti tra i più grandi trovadori del XIII secolo, lasciate le corti di Provenza e di Occitania, sono diventati monaci tra i Cistercensi, ai quali san Bernardo aveva fornito il linguaggio amoroso più evoluto del Medioevo. Folchetto di Marsiglia, Bernard de Ventadorn che prima avevano cantato l'amor cortese, poi nelle abbazie di Silvacane, Senanque, Le Thoronet, cantano il desiderio di Dio. E spesso al primo ascolto non sai se il canto sia in viaggio verso Notre Dame, la donna del cielo, o verso una dama di Provenza. Solo all'ultima strofa si svela il destinatario. La bellezza di Maria è diventata come un archetipo della bellezza umana. Le stese parole abitano il canto profondo dei monaci e nel canto ardente dei trovadori. Da questa primigenia forma di poesia e canto religioso discende anche il canto di Fabrizio De André. La meraviglia che si accende non è però nata dall'elenco dei privilegi di Maria, della sua unicità inarrivabile. È anche per dirla con Heidegger: «die Pracht des Schlichten» («lo splendore di ciò che è dimesso»). A santa Maria si adatta perfettamente la bellezza splendida di ciò che è umile, lo splendore del dimesso. I poveri non hanno storia e anche Maria sfugge per poco, per quel suo Figlio, all'anonimato della storia.


8. Angelo Casati: bellezza e quotidiano
Al quadro precedente, a quel gusto del bello, si unisce anche Angelo Casati, sacerdote milanese. Un poeta sottovoce, definizione che viene dal titolo di un suo libro, La fede sottovoce. La sua poesia è mite e sommessa, alla ricerca delle vibrazioni leggere. Egli è tra i poeti che amano, come Elia sull'Oreb, il mormorio di un vento leggero, il brivido del silenzio, una increspatura sulla superficie del silenzio, sono queste le loro fessure aperte sull'infinito. La voce di Maria racconta:
        Tu mi copri
        come luce silenziosa
        del mattino dei monti.
        Come sole discreto
        mi avvolgi
        senza ferire, pietoso
        dei miei occhi stanchi.
        Come casa sul monte
        che dorme
        tu mi vegli
        alla chiarità delle cose.

Luce discreta, sole che non ferisce, un Dio che veglia la sua creatura anziché chiedere di essere vegliato. E che traluce nella bellezza dei luoghi. In Madonna volto nero, Casati rievoca il rapporto del credente con Maria e il senso e il ruolo della presenza materna della Vergine, lontana da attese miracolistiche o straordinarie:
        e occhi
        occhi accesi ai ceri
        davanti alla tua icona
        madonna, volto nero
        bruciato
        dal sole e dalla croce
        volto sfregiato dai predoni
        le ferite non ricomposte
        a condividere
        le ferite senza miracolo
        dei tuoi figli.

Ferite senza miracolo le nostre; quotidiano senza prodigi ciò che viviamo. Ma la bellezza feriale del navigare quietamente il fiume dei giorni dietro ad una stella, condividendo con Maria non miracoli, ma la mite forza della luce che non si arrende. «Davanti a Dio», dice Simone Weil, «per il vento non c'è nulla di meglio che essere trasparente; per un essere umano non c'è nulla di meglio che essere niente, ferita senza miracolo».

9. Alda Merini: bellezza e corporeità
Alda Merini rappresenta una delle voci più intense e irrequiete del nostro tempo. «Io credo di scrivere», dice, «cose passate attraverso il mio corpo, e la pressura della malattia». Forse per questo le sue parole sono colorate con il sangue del tormento e con il sorriso della dolcezza. La sua poesia mariana è incantata devozione, talvolta fino alla dismisura. Non teologa, ma esegeta della vita, esperta del patire, la croce riappare sul fondo di ogni componimento, come senso ultimo. Essa evoca, con straordinaria forza visionaria, l'interiorità, lo smarrimento, lo stupore di Maria:
        l'anima mia scorre verso dite, come la luce,
        l'anima mia che è foresta di canto
        l'anima che è la tua mano che mi accarezza
        Tu non sai cosa sono le tue mani sopra il mio corpo
        Io sono soltanto una terra adolescente
        Una terra che diventa fiore
        E un fiore che diventa terra.
        Perché vergine se sono madre di tutti?
        Perché madre se sono vergine senza confini?
        Perché questa grande crocifissione amorosa?
        La fede è una mano che ti prende le viscere e ti fa partorire.

«Io scrivo», dice la Merini, «solo cose passate attraverso il mio corpo. E credo che noi tutti siamo stanchi di dire Dio. Noi vogliamo sentirlo». Sentire il Dio sensibile al cuore di Pascal, forse perfino il Dio sensibile al corpo dei poeti esperti in patire: l'anima è la tua mano che mi accarezza.
        Questo pensiero che è venuto da Dio, mi ha baciato in fronte
        Perché gli angeli sono i pensieri di Dio.
        Questi pensieri
        Come mani dolcissime
        Mi hanno cresciuta e lavata
        Fino a che
        Diventata adolescente
        Queste mani
        Mi hanno sciolto i capelli.
        Nessuna carezza
        E mai stata così silenziosa
        E presente
        Come la mano di Dio.
        Ma io non ho visto
        Che in questa mano
        C'era un solco di lacrime
        Che Dio ha impresso
        Sulle mie pagine bianche
        Che si chiamava DOLORE.
        Dio sia ringraziato per questo.
        Dio sia osannato in eterno.

Osa benedire per il solco del dolore, ringraziare per la carezza che diventa croce. Perché la croce è la grande parola dell'amore e del dolore, l'unica che non inganna, perché tutto vi è scritto in lettere di sangue. Il fascino che esercita su di lei Maria viene dal dramma già presente da subito, dalla antinomia carezzadolore. La terra adolescente che è Maria è già arata da un solco di dolore impresso nell'in principio. Estasi e tormento, bellezza e angoscia si intrecciano. Basterebbe citare Origene: «soltanto i tormentati conoscono il Signore». Chi è senza tormento è pronto a respingere l'enigma divino: è persuaso della sua apparente compiutezza. Il tormentato, invece, è sempre al di là di se stesso, l'oltre gli brucia il sangue. Tiene il posto a Dio, lo ospita nelle voragini che si aprono dentro di lui, conosce Dio come il ferito conosce il proprio cuore, percepisce i battiti del cuore proprio là dove la piaga è più profonda.

10. Alcune piste emergentu dall'immaginario poetico di Maria
a)
Da madre a sorella
Era la protettrice invocata, la compassionevole creatura chiamata accanto ai suoi figli, ora emerge come la sorella che è andata avanti, segno di sicura speranza, con la bellezza di una amica. E la mariologia lunare, indiretta, che riverbera il sole unico che è Cristo, per frammenti. Ed è la più vera, che racconta la bellezza del nostro vagare quotidiano e sconfinato alla luce però di una stella.
b) Il primato della corporeità
Analogo a questo è un ulteriore slittamento dell'interesse: Maria da Vergine a Donna, che racconta il rapporto con il Signore attraverso il primato della seduzione, la dinamica del desiderio e il ritorno del corpo. Senza il corpo di Maria, il vangelo perde corpo. Diventa gnosi o ideologia o esortazione morale. Con Maria il corpo è esperienza di relazione. Il corpo di Maria è uno dei punti di contatto dell'umano con il divino. «Maria è uno dei luoghi di incontro tra la materialità della nostra vita e Dio. Per questo è molto importante» (L. Tommassone). E mostra come l'incontro con Dio trasforma il corpo e la vita: «la fede è una mano che ti prende le viscere e ti fa partorire» (Merini). Che fa dire ad un altro poeta: «Poiché il tuo corpo è fra le stelle, supera, Maria, la nostra carne oscura» (E. Bono).
c) Lo splendore del dimesso
Non è la bellezza di Venere a sedurre, né quella di Giunone o delle dee madri di cui è pieno il mediterraneo antico, non la bellezza cosmetica di una dama di corte, ma il volto dimesso di una ragazza di campagna, povera, illetterata. Volto puro nel senso etimologico, perché vuoto di orpelli, di sovrastrutture. Dio può entrare perché trova un vuoto. Una splendida immagine della mistica sufi vede l'uomo come una clessidra che si svuota con gioia perché sa che all'improvviso una mano la capovolgerà.
d) Un'offerta di solarità
Quella della luce è la metafora più ricorrente: «Vergine che fasci il globo con bende di luce» (Turoldo); «eri tu la radiosa notte che racchiudeva il giorno, che avrebbe rivestito di carne la luce» (Turoldo); «luna che sorgi dal cuore dell'ombra» (Montagna); «mi nutre, o Vergine, la tua luce» (Barsotti) Maria è descritta come colei nella quale traluce la tunica di luce di Adamo, quella che lo ricopriva nel giardino dell'Eden, e che, secondo un detto rabbinico, dopo il peccato è stata invece ricoperta dalla tunica di pelle. In Maria, nuova Eva, la creazione è vergine di nuovo e ritrova la tunica di luce dell'origine. La bellezza deIl'«in principio».
e) Primato della contemplazione
Ogni creatura ha negli occhi una preghiera, anche quelle che non hanno occhi. La poesia più autentica insegna a pregare e non domanda niente. E lode, contemplazione, pianto, stupore, seduzione. Domandare qualcosa a Dio significa attendersi una risposta, ma solo gli idoli hanno l'obbligo di rispondere. Per legittimarsi. Per avvicinare e legare a sé l'uomo. Dio invece si accoglie, è lui che si vela e scende. «Chiedere qualcosa a Dio», dice Maestro Eckart, «è fare come il pellegrino che, dopo aver fatto migliaia di chilometri per andare dal papa e una volta davanti a lui, gli chiedesse un fagiolo». Dio non può dare nulla di meno di se stesso. Ma, dandoci se stesso, ci dà tutto.

11. Conclusione
La poesia è la rosa senza perché. Secondo l'intuizione di Angelus Suesius (il pellegrino cherubico), «la rosa è senza perché; fiorisce perché fiorisce, / a se stessa non bada, che tu la guardi non chiede». È senza perché, ma nutre. Lo ribadisce Divo Barsotti:
        Sei una madre
        Che pietosa mi accoglie, sei una sposa
        Che tutto a sé mi rapisce In te io vivo; vivo
        Di te come un figlio che si nutre
        Al tuo seno. Mi nutre, o Vergine,
        la tua luce, la tua bellezza pura.
        Nulla ho da chiederti: mi basta
        Che rimanga per me la tua visione.

La bellezza nutre le profondità della vita. Affinché sia trasformata. La bellezza e la poesia trasfigurano la vita dei «somiglianti nel cuore». Affinché sia vero anche per noi, oltre che per Maria, quel verso di Alda Merini, che ci chiama, infine, al di là di ogni parola: «più bella di ogni poesia / è stata la mia vita».

Bibliografia
RONCHI E., La bellezza di Maria nei poeti contemporanei, in Theotokos XIV (2006), pp. 557-574; NOVALIS, Canti spirituali, Mondadori, Milano 1982; TUROLDO D. M., Laudario alla Vergine, EDB, Bologna 1980; ID., Il fuoco di Elia profeta, Piemme, Casale Monferrato 1992; TESTORI G., Interrogatorio a Maria, Rizzoli, Milano 1979; MONTAGNA D. M., Il discepolo la prese con sé, Arezzo 1982; CASATI A., Il viaggio di Maria, in Servitium (2005) 16; ID., Coro e fuori coro, in Servitium (2003) 43.www.latheotokos.it/admin.phpww

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- POESIA
-VIGO PIO VITTORIO




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