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VOCAZIONE UNIVERSALE ALLA SANTITÁ


La tradizione cristiana ha espresso lungo i secoli la consapevolezza che «a Gesù si va e si torna per Maria»: è lei che ha portato al mondo il Salvatore, intorno a lei si sono riuniti gli Apostoli in attesa dello Spirito di Cristo, ed è da lei che la Chiesa ha imparato ad accogliere la Parola di Dio nella fede. Questo adagio ci suggerisce che per riportare a Cristo le nazioni di antica tradizione cristiana che sembrano averlo smarrito, dobbiamo prendere in considerazione il modello che la Madre di Gesù costituisce per noi. Ma seguire Gesù come ha fatto Maria significa incamminarsi sulla strada che mira alla santità, cioè a raggiungere l'unione intima fino all'identificazione con Cristo, che è "il Santo", sui passi di colei che è la prima discepola di Gesù e la "Tutta santa". Maria è un punto di riferimento per cercare la santità anche per le persone che non sono chiamate ad abbandonare la propria situazione nel mondo, perché lei corrispose allo straordinario dono di grazia senza modificare la sua vita quotidiana di donna israelita. Seguendo le sue orme, la vita cristiana può essere vissuta pienamente nella condizione comune degli uomini e delle donne in questo mondo, come avveniva nei primi secoli del cristianesimo, prima che la ricerca della santità venisse riconosciuta prevalentemente nella forma della "fuga mundi". I cristiani, chiamati alla santità, possono portare questo alto ideale in tutte le attività umane, scegliendo di dare alla propria esistenza il fine più nobile: «Vivere uniti a Dio, nel mondo, in qualunque situazione, cercando di migliorare se stessi con l'aiuto della grazia, e facendo conoscere Gesù Cristo con la testimonianza della vita. E che cosa c'è di più bello e di più entusiasmante di questo ideale?».

1. La chiamata universale alla santità
Fin dagli inizi, la vita cristiana è stata intesa come una chiamata ad essere santi, secondo l'insegnamento del Signore: «Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48), che fu ripreso subito da san Paolo: «Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione» (1Ts 4,3). Cristo è «il santo» (Lc 1,35) e infonde la sua santità ai credenti per mezzo dello Spirito (cf. 1Cor 3,16). Questa è la convinzione da cui prese le mosse la predicazione cristiana delle origini, in epoca apostolica: «Paolo [...] alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata» (lCor 1,2); «Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata [...] a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!» (Rm 1,1.7); e san Pietro conferma: «Come il Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta» (1Pt 1,15). La santità ricevuta "per chiamata" è la condizione del cristiano, di ogni cristiano, ed era ben chiara agli inizi della vita della Chiesa, come vediamo da queste testimonianze della Scrittura, ben presto riprese dai Padri: ogni cristiano è "santo per chiamata", ossia scelto da Dio per essere santo in tutte le sue opere, perché è già stato santificato dalla grazia ricevuta nel Battesimo. Lungo la storia della Chiesa non si è certo persa la consapevolezza della vocazione dei cristiani alla santità, ma ne è stato ristretto il campo, limitando la possibilità di accedere a questa totale unione con Cristo solo a coloro che operavano una speciale consacrazione a Dio, ossia ai chierici e ai religiosi. Alcune poche voci si levarono dopo l'epoca patristica fino al XX secolo, per cercare di portare anche a coloro che vivono nel mondo, occupati nelle diverse professioni e attività familiari e sociali, la chiamata e la pratica di una intensa vita cristiana, tra cui ricordiamo quella di san Francesco di Sales (1567-1622) e quella, più vicina a noi, di san Josemarìa Escrivà (1902-1975). Tra i doni che il Concilio Vaticano II ha offerto alla Chiesa e al mondo, secondo l'autorevole riflessione di Paolo VI, emerge «questa importantissima nota della santità, alla quale tutte le altre sono intimamente unite, e [il Concilio] ha ripetutamente invitato tutti i cristiani di ogni condizione e classe sociale alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità; e questo appello alla santità è ritenuto come specialissimo compito dello stesso magistero conciliare e come sua ultima finalità» (cf. LG 40-42). Il Concilio ha sollevato il velo che da secoli nascondeva la consapevolezza della vocazione dei laici alla santità, in una prospettiva che tuttora viene accolta con diverse difficoltà, sia di tipo culturale sia ecclesiale. Le difficoltà culturali sono costituite dal senso di insofferenza che gli uomini del nostro tempo avvertono verso tutto quello che li trascende e supera, preferendo non sentirsi rapportare ad un Essere superiore a sé. Arrivano a scrivere Dio con la minuscola, nel tentativo di rendere addomesticabile persino l'Essere perfettissimo, ridotto a un dio minore. Avvertono la difficoltà ad accogliere Colui che richiede l'apertura dell'anima nella fede, con un rischio non coperto da previdenze e assicurazioni. Si può dire che la nostra non sia un'epoca particolarmente coraggiosa, ma piuttosto attenta alla concretezza di ciò che è necessario per l'oggi, ed impaurita al pensiero del domani! Dal punto di vista ecclesiale, uno dei segni della difficoltà ad accogliere veramente il messaggio della santità per tutti, può essere individuato nella mancanza di una solida formazione per i laici nella proposta ordinaria delle parrocchie. Escludiamo da questa considerazione i movimenti laicali e le istituzioni ecclesiali che hanno il carisma della promozione della santità tra i laici, e che nei modi più adeguati provvedono a sostenere i loro associati, fedeli e simpatizzanti nel cammino verso la santità. Per il resto, sembra che questa chiamata non venga ancora rivolta a tutti sul serio, con iniziative che riescano a trasmettere tale prospettiva come una realtà che investe i laici di libertà e di responsabilità formative e apostoliche. Risvegliare la coscienza della chiamata alla santità per tutti i cristiani è stata una priorità nel Magistero di San Giovanni Paolo II, che ha impiegato in questo senso tutte le sue energie. Ne danno testimonianza il grande numero di beatificazioni e di canonizzazioni che egli ha promosso durante il suo pontificato, e la quantità di suoi insegnamenti su questo tema che si sono fatti più insistiti in prossimità dell'anno 2000, solenne giubileo della nascita di Cristo e appuntamento con la storia, nella quale Dio fattosi uomo tornava a chiedere di essere riconosciuto e accolto. In particolare, all'inizio della lettera apostolica con cui ha indicato l'orientamento da dare al nuovo millennio, Giovanni Paolo II ha riproposto al nostro mondo impaurito le parole di Gesù a Pietro: «Prendi il largo!» (Duc in altum). All'inizio del nuovo millennio, mentre si chiude il Grande Giubileo in cui abbiamo celebrato i duemila anni della nascita di Gesù e un nuovo tratto di cammino si apre per la Chiesa, riecheggiano nel nostro cuore le parole con cui un giorno Gesù, dopo aver parlato alle folle dalla barca di Simone, invitò l'Apostolo a «prendere il largo» per la pesca «Duc in altum» (Lc 5, 4). Pietro e i primi compagni si fidarono della parola di Cristo, e gettarono le reti. «E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci» (Lc 5, 6). La sollecitazione ad agire in modo audace si concretizza poi in ulteriori indicazioni programmatiche per il nuovo millennio, tra cui la prima è la necessità di collocare l'azione pastorale della Chiesa nella prospettiva della santità. La santità intesa come amicizia con Dio e non come una serie estenuante di pratiche ascetiche diventa accessibile a tutte le persone in tutte le situazioni. Come ogni amicizia, anche quella con Dio prende le mosse dalla quotidianità e si alimenta nei momenti di incontro. In questa prospettiva, la preghiera personale e liturgica, il lavoro e la famiglia, i rapporti sociali e gli impegni culturali e anche gli aspetti ludici dell'esistenza diventano occasioni di incontro con Dio, di amicizia con Lui, e quindi di santificazione propria e altrui.

2. La vocazione particolare di Maria di Nazaret

Tra tutti i seguaci di Gesù, Maria è colei che è stata santificata nel modo più eccellente dal perfetto Mediatore che è Cristo e la Chiesa la venera sia in Oriente sia in Occidente come la "Tutta santa", colmata di grazia fin dall'inizio per giungere alla santità più piena. L'eccelso dono di grazia non esclude che anche lei abbia percorso una strada di progressiva crescita nella santità, secondo le parole della Scrittura: «Il giusto continui a praticare la giustizia e il santo si santifichi ancora» (Ap, 22, 11). Ella è considerata nella Chiesa il modello di unione con Cristo per tutti i cristiani: la persona di Maria di Nazaret è la più indicata per ricordare a tutti i cristiani l'ideale della santità a cui sono chiamati. Infatti, la Madre di Dio ha ricevuto una vocazione unica nella storia della Chiesa: lei sola è la madre di Cristo, nostro Signore e Salvatore, e lo ha accompagnato e seguito nella sua missione in modo materno dai primi agli ultimi istanti della sua vita. Da Betlemme fino ai piedi della Croce, Maria ha partecipato al compimento del piano della Redenzione, e Gesù a più riprese l'ha associata alla sua missione, fino ad affidarle il discepolo amato (Gv 19,26), emblema di tutti i suoi discepoli presenti e futuri. Così la sua maternità divina è stata ampliata nella maternità spirituale nei confronti della Chiesa, il corpo mistico di Cristo. Insomma, la chiamata di Maria ad essere madre di Dio e poi della Chiesa è evidentemente unica e quindi non è facile comprendere come gli altri cristiani possano riconoscere in lei il modello della propria chiamata alla santità. D'altro canto, per preparare Maria a questo compito così alto, Dio la preservò dal peccato originale e la riempì di grazia in modo che, con libera corrispondenza, ella potesse evitare anche ogni altro peccato lungo la sua vita. La Madre di Dio, sostenuta dallo Spirito, fece sempre uso della sua libertà per servire Dio e il prossimo. La sua condizione spirituale è perciò unica, il suo amore è ardente, la sua preghiera è pura lode e gratitudine all'Altissimo (Lc 1,46-55). Nessun'altra creatura ha raggiunto una tale condizione di comunione con le Persone divine, né mai la raggiungerà. Anche per questo motivo, non è semplice comprendere come la Madre di Dio possa essere modello di santità per i cristiani, che devono combattere contro le conseguenze del peccato originale che restano dopo il Battesimo, e in particolare contro la concupiscenza, che è l'interiore inclinazione al male. Inoltre, sia la pietà popolare sia la riflessione dei teologi fin dalle origini della Chiesa hanno colto la speciale santità di colei che è stata chiamata ad essere la Madre di Dio e la "Tutta santa", e l'hanno cantata ed esaltata in diversi modi, che vanno dalle omelie e dagli inni dei primi secoli ai trattati di mariologia dell'età moderna e contemporanea. Si trovano anche delle esagerazioni in questa vastissima produzione, perché come tutti gli aspetti dell'attività umana, anche quello della pietà mariana ha conosciuto gli eccessi e la fatica per discernere le giuste attribuzioni da quelle fallaci; fatica resa più onerosa dal coinvolgimento emotivo che in genere si sperimenta nel parlare di lei. Tuttavia, tutto ciò non significa altro che il fatto che lungo la storia si sono compiute le profezie del Vangelo riguardo alla lode a Maria (Lc 1, 42.48) e alla chiamata di ogni discepolo di Cristo a prenderla con sé nella sua vita (Gv 19,27). Insomma, anche l'importanza del culto mariano, che nella sua sostanza risponde al progetto di Dio, e quindi è essenziale nella Chiesa, mostra che ci troviamo di fronte a una donna eccezionale, unica Ira tutte le persone umane, e dunque diversa dai comuni fedeli. Più recentemente, la teologia femminista ha fatto sua la critica al culto mariano e alla figura stessa di Maria che la Chiesa propone, con argomentazioni che nascono dall'adozione dell'«esperienza delle donne» non solo come oggetto di indagine teologica, ma anche come criterio per giudicare la validità della rivelazione e dell'insegnamento cristiano. Se in precedenza la teologia aveva già criticato gli eccessi nella devozione e nel culto mariani, le teologhe femministe sottolineano, invece, il fatto che la figura di Maria corre il rischio di fornire un'immagine antropologicamente immatura e antiquata di donna, frutto di una mentalità maschilista, che la utilizza con intenzioni manipolatorie nei confronti delle donne. Secondo queste autrici, l'immagine 'classica' di Maria non sarebbe un modello adatto alle donne, perché in genere risponde a canoni lontani dalla realtà attuale: ad esempio, la sua purezza verginale trasmetterebbe l'ideale di un essere asessuato; la sua 'eterna' giovinezza e bellezza sarebbero lontane dai mondo delle donne vere, che mostrano nel loro corpo i segni dell'età; il suo esempio di accettazione del sacrificio rischia di incoraggiare un certo masochismo; le sue virtù sarebbero 'negative' perché rispondenti ad un solo registro: quello della docilità che facilmente viene confusa con la passività. Le teologhe femministe propongono una lettura più realistica di Maria, ad esempio attraverso l'adozione di immagini che rappresentino «junto a la adolescente de la anunciación, la mujer madura de manos encallecidas y pies anchos y grandes de mujer trabajadora. Nos gustaría vernos reflejadas en una mujer menos niòa, menos andrógina, menos 'espiritual' que mantuviera su mirada en la realidad». Propongono di recuperare l'importanza di san Giuseppe accanto a lei, sposo giovane e innamorato, e padre presente; di riscoprire in lei le "qualità femminili" di Dio, che ce lo rendono affettuosamente vicino; di sottolineare le virtù sociali di Maria, donna aperta a tutti i tipi di persone, anche nella difficile esperienza dell'emigrazione: la sua fedeltà intelligente e forte nel dolore, la sua indipendenza e il suo coraggio anticonformista. Per queste teologhe, uno dei primi compiti che toccano alla mariologia femminista è quello di relativizzare la maternità di Maria, perché sarebbe un riflesso della storia e della cultura, e servirebbe solo a perpetuar la «profunda escisión secularmente abierta entre el ideal femenino de lo materno y las mujeres concretas, con su diversidad subjetiva». Ed effettivamente il dogma della maternità divina risulta difficile da trattare per la teologia femminista: nelle conclusioni del libro che sto seguendo, María mujer mediterránea, si propone una rilettura dei dogmi mariani, «pues hay que reconocer que los dogrnas que nos hablan de María han perdido sentido y no han seguido los fuertes cambios que ha sufrido la civilizaciòn en los ultimos 100 aòios». Dopo questo giudizio si traccia una proposta di revisione che però non tocca il dogma della maternità divina. Forse ciò significa che questo dogma, a differenza degli altri, non ha perso significato nonostante i cambiamenti degli ultimi cento anni; ma certamente non viene spiegato quale sia questo significato. Infine, un filone della teologia femminista vede in Maria una riedizione delle divinità femminili dell'antichità. Secondo Chtista Mulack, teologa protestante, il titolo di Madre di Dio viene attribuito a Maria in quanto ella viene identificata con una delle reincarnazioni della Grande Madre, la dea della fecondità venerata in tutte le culture dell'antichità con diversi nomi: Rea, Iside, Cibele, Giunone... Maria sarebbe il suo nome nella religione cristiana. Mulack osserva che, curiosamente, Maria ereditò questo titolo divino proprio nel Concilio che si svolse nella città di Efeso, dove un tempo sorgeva il tempio della grande Diana, i cui seguaci si opposero alla predicazione di san Paolo (Atti 19,28). Comunque, a detta di vari studiosi, l'assimilazione di Maria alla Dea Madre, benché trovi oggi alcuni sostenitori, non ha fondamento né nelle fonti cristiane da cui conosciamo la Madre di Gesù, né nella mentalità ebraica, da sempre attenta a non mescolarsi con i culti pagani.

3. Maria e la chiamata universale alla santità

Per comprendere come Maria di Nazaret sia importante per far riscoprire a tutti i cristiani la chiamata alla santità in tutte le condizioni di vita, propongo di partire dalla considerazione di un paradosso presente nella sua storia, da lei stessa segnalato nel Magnificat: la logica dell'abbassamento/esaltazione, messa in atto da Colui che «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52) perché ha stretto la nuova e definitiva Alleanza con l'umanità attraverso una insignificante ragazza ebrea. Ma oltre a questo, propongo di riflettere sul fatto che nella sua vita vi è un ulteriore paradosso, legato al primo e che forse possiamo considerare come una sua conseguenza: quello di aver ricevuto la vocazione più eccelsa che una creatura umana possa immaginare, ed essere stata chiamata a viverla in una situazione di assoluta normalità. Potremmo esprimere questo paradosso con il binomio "eccellenza/normalità". Il primo termine nasce dalla considerazione che la sua dignità è superiore a quella di ogni altro essere creato, come san Tommaso affermò facendo eco a tutta la Tradizione della Chiesa, che le riconosce quel valore in certo modo infinito che è riservato alle realtà create che entrano in contatto sostanziale con Dio: «L'umanità del Cristo, perché unita alla divinità, e la beatitudine creata, perché godimento di Dio, e la beata Vergine Maria, perché Madre di Dio, hanno una certa dignità infinita, loro derivante dal bene infinito, che è Dio». Il secondo termine significa che, allo stesso tempo, la sua situazione umana. rimase invariata, perché Maria non acquisì alcun tipo di fama durante la sua vita, non divenne predicatrice accanto al Figlio, né guida del popolo come Debora o Giuditta, né regina come Ester: la sua rimase la vita di una madre di famiglia, priva di rilievo apparente. Se mai ebbe fama, fu di riflesso all'entusiasmo popolare suscitato da Gesù, come attesta il Vangelo: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!» (Lc 11,27). A Maria non si possono ragionevolmente applicare le narrazioni dei vangeli apocrifi, secondo i quali sarebbe cresciuta nel tempio nutrita dagli angeli e sarebbe stata aiutata in modo miracoloso a mostrare l'innocenza della sua maternità. Dai Vangeli non emerge alcun tipo di miracolismo nella sua vita, in linea del resto con quanto avvenne nella vita del Signore: ci sono miracoli, sì, ma sono sempre volti a suscitare la fede e a manifestare la misericordia di Dio che si piega sulle sofferenze umane, e non rispondono alla logica utilitarista del potere usato per porre rimedio egoisticamente a situazioni difficili, quasi fossero scorciatoie per evitare la fatica dell'impegno personale. Di fatto, i disagi che accompagnarono la nascita del Signore a motivo del censimento non furono alleviati con un intervento straordinario proveniente dal cielo; la minaccia di Erode non fu evitata prodigiosamente, ma rese necessaria una fuga difficile e angosciosa verso una terra sconosciuta; e il ritorno nella terra di Davide non fu possibile perché in Giudea regnava un figlio di Erode, e Maria e Giuseppe rinunciarono alla possibilità di stabilirsi nella regione dei loro padri, per ritornare nella lontana Galilea. Dal nostro osservatorio, non ignoriamo che questi eventi contribuirono ad attuare il piano della Provvidenza, tuttavia dobbiamo osservare che il disegno di Dio si è compiuto senza scavalcare con interventi straordinari le dinamiche proprie della libertà degli uomini. Dio non interviene con miracoli per "sistemare" le situazioni che gli "sfuggono di mano", o per correggere l'imperfezione delle sue stesse opere, nel qual caso i miracoli sarebbero effettivamente indegni di Lui, come intendeva Spinoza, seguito in questo da Voltaire e da Rousseau. Non ci furono miracoli per eliminare le difficoltà davanti a Maria e Giuseppe, ma solo per manifestare la grandezza degli eventi di cui furono protagonisti e per confermarli nella fede. L'arcangelo che portò l'annuncio a Maria e l'angelo che parlò nel sonno a Giuseppe, come anche gli angeli che apparvero ai pastori a Betlemme, non offrirono soluzioni alle difficoltà che la Parola di Dio veniva a creare, ma invitarono a percorrere un cammino di fede. Le difficoltà interiori ed esteriori non furono risparmiate a questa donna che ricevette dei doni spirituali particolari non come privilegi?3 ma piuttosto come talenti da far fruttare, strumenti necessari per la missione che le era stata affidata: essere la Madre di Dio e poi la Madre della Chiesa. Infatti, non possiamo non renderci conto del fatto che la vita e la morte di suo Figlio furono causa di non poche difficoltà per lei, che continuamente venne sorpresa dai comportamenti di Lui e dovette essere guidata a comprenderne il mistero anche attraverso le reazioni che suscitava negli altri (cf. Lc 2, 19. 51). Nella vita di Maria l'intreccio del divino con l'umano si compì secondo la legge dell'incarnazione, che contempla la loro unione senza confusione, senza separazione e senza modificazioni. Maria divenne madre nella fede, e per lei la gestazione, la nascita e i primi anni del Figlio furono continue esperienze di fede, vissute nella carne sua e in quella di Lui, luogo della divinità presente nella vera umanità (cf. Col 2, 9). La sua vita di fede divenne maternità e si espresse in tutti i gesti della relazione materna: non vi era in lei separazione tra le opere della fede e le opere della cura per il Figlio. Si trattava di azioni comuni, normali, uguali a quelle di milioni di donne che nei secoli hanno accudito i propri figli; e allo stesso tempo, di quelle opere si sostanziava il suo dialogo con Dio, e così cresceva la sua unione con Lui. Pur essendo riempita dalla presenza di Dio nel suo corpo e nel suo spirito, Maria rimase creatura, senza modificazioni, ossia con tutte le caratteristiche della sua realtà creata: donna, israelita, giovane sposa, lavoratrice nella sua casa, come era abituale per le ragazze di quel tempo. Pur essendo diventata la persona più importante sulla terra per il suo rapporto unico con l'Onnipotente, la sua realtà umana non si confuse con la realtà divina; resa una con il progetto divino, divenne il luogo in cui la grazia agisce più efficacemente, senza trasformarne la natura umana. Ella raggiunse il vertice dell'unione con Dio, dunque il vertice della santità, nella fede vissuta soprattutto nella vita ordinaria.36 Maria mostrò con semplicità che la fede è "vita di fede", oppure non è. Così mise in luce il legame che unisce la vita spirituale alla vita ordinaria, uguale a quella di tutti gli altri. L'insegnamento del Concilio Vaticano II, riscoprendo la prospettiva altissima della santità quale vocazione di tutti i cristiani, rende necessario rileggere in quest'ottica la figura di Maria, di cui fino a quel momento erano state sottolineate prevalentemente le virtù di tipo conventuale, oppure quelle legate all'ambiente domestico, da cui scaturiva una sorta di mistica della vita femminile, ormai totalmente inadeguata alla realtà dei nostri tempi. Dieci anni dopo il Concilio, Paolo VI dovette ricordare: « Si osserva, infatti, che è difficile inquadrare l'immagine della Vergine, quale risulta da certa letteratura devozionale, nelle condizioni di vita della società contemporanea e, in particolare, di quelle della donna, sia nell'ambiente domestico, dove le leggi e l'evoluzione del costume tendono giustamente a riconoscerle l'uguaglianza e la corresponsabilità con l'uomo nella direzione della vita familiare; sia nel campo politico, dove essa ha conquistato in molti paesi un potere di intervento nella cosa pubblica pari a quello dell'uomo; sia nel campo sociale, dove svolge la sua attività in molteplici settori operativi, lasciando ogni giorno di più l'ambiente ristretto del focolare; sia nel campo culturale, dove le sono offerte nuove possibilità di ricerca scientifica e di affermazione intellettuale». L'intervento di Paolo VI ha avuto il pregio di chiarire che «innanzitutto, la Vergine Maria è stata sempre proposta dalla Chiesa alla imitazione dei fedeli non precisamente per il tipo di vita che condusse e, tanto meno, per l'ambiente socioculturale in cui essa si svolse, oggi quasi dappertutto superato; ma perché, nella sua condizione concreta di vita, ella aderì totalmente e responsabilmente alla volontà di Dio (cf. Lc 1,38); perché ne accolse la parola e la mise in pratica; perché la sua azione fu animata dalla carità e dallo spirito di servizio; perché, insomma, fu la prima e la più perfetta seguace di Cristo: il che ha un valore esemplare, universale e permanente». In concomitanza con l'esortazione rivolta a tutti a seguire la chiamata divina a diventare alla santità, il Concilio Vaticano II ha anche spalancato la strada della relazione tra Maria e la comunità dei credenti, sottolineando l'importanza dei rapporti tra lei e la Chiesa. Maria è persona in relazione, e le sue virtù sono virtù relazionali: esse non mirano a un compiaciuto e sterile autoperfezionamento, ma a stabilire un rapporto profondo e autentico con Dio e con i fratelli. In questa luce, quindi, andrebbero riletti i dogmi mariani, allo scopo di mostrare che i doni di grazia che lei ha ricevuto le sono stati dati per il vantaggio altrui, oltre che per il proprio, e quindi non la allontanano da noi. Non si tratta di privilegi, per il semplice fatto che Maria non ne ha goduto egoisticamente, quasi alle spalle degli altri cristiani; si tratta invece di doni che lei ha fatto fruttare per il bene di tutti. In questo senso, penso che la parabola dei talenti esprima in modo compiuto anche la realtà della missione della Madre del Salvatore (cf. Mt 25, 14-30): senza dubbio, Maria ha ricevuto molti talenti, più di ogni altro figlio di Dio, ma la sua grandezza non sta solo in questo, bensì nell'averli negoziati con grande intelligenza e generosità. Innanzitutto vi è il dono e il dogma della maternità divina, di cui il Vaticano II ha messo in luce il valore ecclesiale: «Orbene, la Chiesa contemplando la santità misteriosa della Vergine, imitandone la carità e adempiendo fedelmente la volontà del Padre, per mezzo della parola di Dio accolta con fedeltà diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il Battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello Spinto Santo e nati da Dio» (LG 64). La generazione di Cristo vissuta da Maria nel suo corpo, ha aperto la strada alla Chiesa, che continuamente è chiamata a dare alla luce Cristo nei cuori dei fedeli, con la predicazione e i sacramenti. La Chiesa impara da Maria, contempla la sua fede e il suo amore e trova così la strada per generare Cristo nella fede. È ben nota l'audacia con cui s. Ambrogio attribuì addirittura a ogni cristiano questa fecondità spirituale, in unione con la Madre di Dio: «Ogni anima che crede, concepisce e genera il Verbo di Dio e ne comprende le operazioni. Sia in ciascuno l'anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria ad esultare in Dio». La fede di Maria che è feconda nel suo corpo oltre che nella sua anima, è un esempio per i cristiani che da lei imparano ad affidarsi a Dio e a collaborare ai suoi piani di salvezza per l'umanità. Dunque, la maternità divina non dovrebbe costituire una separazione tra la condizione particolare di Maria e quella comune nostra: pur mantenendo la specificità di colei che è Madre di Dio nella carne, ogni cristiano e tutta la Chiesa hanno da Dio la grazia per far nascere spiritualmente Cristo nella vita di tante persone. Da Maria, la Chiesa impara anche l'atteggiamento profondo della carità materna, indispensabile per accudire coloro che sono stati generati nella fede, portando così a compimento la sua vocazione: «La Vergine nella sua vita fu modello di quell'amore materno da cui devono essere animati tutti quelli che nella missione apostolica della Chiesa cooperano alla rigenerazione degli uomini» (LG 65). Per quanto riguarda il dono e il dogma dell'Immacolata concezione e l'assenza di peccato in Maria, il Concilio ricorda: «Mentre la Chiesa ha già raggiunto nella beatissima Vergine quella perfezione, che la rende senza macchia e senza ruga (cf. Ef 5,27), i fedeli del Cristo si sforzano ancora di crescere nella santità per la vittoria sul peccato; e per questo innalzano gli occhi a Maria, la quale rifulge come modello di virtù davanti a tutta la comunità degli eletti »(LG 65). In Maria immacolata la Chiesa vede quella parte di sé più perfetta in cui la sua stessa vocazione ad essere tutta di Cristo si è già compiuta, e per questo Maria costituisce un segno di speranza per tutti i cristiani. Infatti, la sua condizione particolare è quella di chi apre un cammino affinché molti altri lo possano percorrere; il suo dono di grazia è più grande del nostro perché il compito che le è stato assegnato è più gravoso, e si proietta in una dimensione universale, quella della salvezza di tutta l'umanità. Siccome il suo obiettivo consiste nell'utilità comune, esso non la separa, anzi, l'avvicina a noi. L'assenza di peccato inoltre è garanzia di comunione profonda con Dio e con tutti. Per questo anche la nostra santità trova nella sua un punto di appoggio e un segno di speranza: «La sua vicenda terrena, pertanto, è caratterizzata dallo sviluppo costante e sublime della fede, della speranza e della carità. Per questo, Maria è per i credenti il segno luminoso della misericordia divina e la guida sicura verso le alte vette della perfezione evangelica e della santità». Infine, a proposito delle critiche femministe all'immagine di Maria che la Chiesa trasmette, penso che le richieste di una maggiore verosimiglianza nel dipingere il "personaggio" Maria di Nazaret siano da apprezzare, perché aiutano ad avvicinarsi alla sua persona umana reale. Tuttavia, in questo tipo di approccio occorre sempre stare attenti ad evitare il pericolo di attribuire a Maria, come può avvenire con ogni personaggio di un'altra epoca, la sensibilità e le aspettative del proprio momento storico: in questo senso il femminismo può cadere in un eccesso di attenzione a rivendicazioni che non appartengono al contesto culturale del secolo, benché in ultima analisi le istanze di giustizia che contengono siano universali, e in quanto tali sono state certamente presenti nel cuore della Madre di Dio. Più interessante per noi è cercare di comprendere la sua persona dai dati che Scrittura e Tradizione ci hanno consegnato: questo perché, benché ognuno debba trovare la propria via nell'aprirsi all'opera della grazia, l'esempio della Madre di Gesù è guida sicura per condurre al pieno incontro con Cristo. A questo proposito, bisogna osservare che il tema della santità, che costituisce il fine della vita cristiana, è piuttosto assente nelle riflessioni femministe sulla persona di Maria, soprattutto in quelle delle studiose che hanno adottato la teologia della liberazione come linea ermeneutica del loro lavoro.

4. Conclusione

La Madre del Signore ha percorso un cammino di fede che ha reso possibile il compiersi della storia della salvezza, ed è giunta al termine di questo percorso, che è la santità. Per tutti i cristiani la sua esperienza ed il suo esempio sono di valore fondamentale perché, pur nella loro eccezionalità e irripetibilità, non sono realtà chiuse in sé, ma aprono una strada percorrendo la quale tutti possono arrivare alla personale e piena unione con Cristo e con gli altri. La vita ordinaria è lo scenario nel quale Maria ha vissuto la sua vita di fede, e questa situazione continua ad essere valida per noi, cristiani del ifi millennio, quale luogo di incontro con Dio e di testimonianza cristiana. Anzi, in seguito agli insegnamenti del Concilio Vaticano II sulla chiamata universale alla santità, poi ripresi da San Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte come questioni centrali per l'impegno pastorale della Chiesa nel millennio che è appena iniziato, occorre approfondire questo punto per comprendere meglio come poter cercare la santità nella vita normale. La figura di Maria può gettare luci su questo impegno della Chiesa per aprire all'incontro con Dio tutte le situazioni umane, a patto che noi mettiamo maggiormente in luce il suo legame materno con la Chiesa, la sua solidarietà con il genere umano, la sua risposta di fede in ogni momento dell'esistenza.

Bibliografia

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VEDI ANCHE:
- ETICA CRISTIANA
- ETICA RELAZIONALE
- MODELLO DI ESISTENZA CRISTIANA
- MODELLO DI SANTITÁ
- MODELLO ESEMPLARE
- MORALE CRISTIANA

 






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