ISMAELE/ISMAELITI - ISPIRAZIONE - DIZIONARIO BIBLICO

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ISMAELE/ISMAELITI - ISPIRAZIONE
ISMAELE/ISMAELITI
(Ehr. 18ma'el, acc. Iasmah-el dell'onomastica amorrea = "Dio ascolti"). Figlio di Abramo e di Agar (Gen. 16). Sara sterile e vecchia, per dar figli al marito ed evitare l'onta (Is. 63, 9; Eccl. 42, 9 ss.; Lc. l, 25) della sterilità, offre ad Abramo la schiava Agar come concubina. Il codice Hammurapi (§§ 144-146 e, forse 163) prevede il caso di sterilità della moglie e l'introduzione della schiava che un contratto di Nuzu rende obbligatoria. Agar, incinta, ingiuria Sara e col consenso di Abramo (§ 146 di Hammurapi) è maltrattata (Ex. 21, 20 s. permette di battere, non di uccidere sul colpo lo schiavo) e fugge ad una fonte del deserto di Shur, l'attuale Bir Màin. Dall'angelo di Iahweh è invitata a ritornare e riceve la promessa della discendenza, la sorte e il nome del nascituro: I. «Dio ha udito il tuo dolore». I. nasce quando Abramo ha 86 anni e provoca promesse divine al momento dell'alleanza tra Dio e il patriarca (Gen. 17, 18.20). Quando Sara dà alla luce Isacco si riaccende la lotta tra lei e Agar (Gen. 21, 8-19): la prima esclude dalla successione ereditaria il figlio della schiava. Per i diversi codici mesopotamici (Lipit. Istar, Hammurapi, leggi assire, contratti di Nuzu) i figli delle concubine sono esclusi dall'eredità, e la storia di Iefte (Iudc. 11, 1 s.) sembra attestare il medesimo uso in Israele. Non però se sono stati assimilati ai figli della moglie da una adozione come quella di Sara (Gen. 16, 2). I. ha diritto all'eredità e si deve accontentare invece della benedizione di Dio (Gen. 20, 13) e del dolore di Abramo. Caricato sulle spalle di Agar; I., esaurita l'acqua nel deserto di Bersabea, è gettato sotto un cespuglio, piange, grida: l'angelo di Iahweh mostra un pozzo per calmare la sete. Gen 21, 2 s. riferisce la vita di I.: assistito da Dio diventa un tiratore d'arco nel deserto di Param (cf. Gen. 14, 6 a nord della penisola sinaitica, onde il rapporto tra Agar e il Sinai di Gal.4, 25 s.) e sposa un'egiziana. Seppellisce Abramo (Gen. 25, 9) e accanto a lui è sepolto a 137 anni (Gen. 25, 17). Con I. si è nella sfera di attrazione dell'Egitto. Egiziane la madre (Gen. 16, 1) e la sposa (21, 21). Il paese di Misraim (Egitto) si estende al di là della valle del Nilo e giunge fino al Nahal Musur "torrente d'Egitto", oggi Wadi el’-Aris. Gli Ismaeliti (Gen. 25, 18) abitano da Hawilah (Gen. 12, 7.29) fino a Shur (Gen. 16, 7; 20, l; Ex. 15, 22) che è di fronte all'Egitto. (I due termini sembrano delimitare l'Arabia del Nord): Shur "muro" evoca "la muraglia del capo" di Sinuhe la quale deve contenere i Beduini indisciplinati, indipendenti, sfida permanente ai sedentari, vagabondi come l'asino selvatico (Gen. 16, 12, cf. Iob 11, 12; 39, 5-8), quali sono gli Ismaeliti che solcano la regione desertica tra l'istmo di Suez e il Negeb. I discendenti di I. (Gen. 25, 12-15) costituiscono le tribù dell' Arabia del Nord: Nebaioth (forse i Nabatei che occuperanno più tardi una parte della Transgiordania) e Qedar (Is. 21, 16; 42, 11; Nabata e Qedra dei testi assiri, Nabatei e Cedraei di Plinio; 'Adbel'el simile al governatore arabo Idi-bi-'-Iu conosciuto da Teglatfalasar III); Bibsam (I Par. 4, 25) e Misnìa (cf. gli arabi Isamme di Assurbanipal); Dumah, l'oasi di el.Djof, l'Adummat dei testi assiri; Massa (Mas'a di Teglatfalasar III), Tejmiì', l'oasi conosciuta dallo stesso re assiro, Ietur (cf. Lc. 3, l) e Nafis (I Par. 5, 19), avversari di Ruben e Gad; Qedmah (forse Kadmoni di Gen 15, 19. Sinuhe incontra Qdm ad est del Mar Morto). Nel deserto arabo-egiziano si mostrano i parchi e gli accampamenti circoscritti da cerchi di pietre. Le famiglie degli Ismaeliti sono raggruppate secondo l'ava comune come suggerisce l'appellativo 'ummah (ar. 'ummah, acc. ummu "madre" Gen. 25, 16). Così tutta una tribù si chiama Hagri (Ps. 83, 7; I Par. 5, 10.19 s.) per eternare il nome di Agar. I classici li conoscono sotto le forme *** e Agraei. Gli Ismaeliti sono ricordati quando Giuseppe è venduto (Gen. 37, 25 ss., cf. 43, 1; e 39, 1): una carovana proveniente da Galaad, ad est del Giordano (Ier. 8, 22), con prodotti apprezzati in Egitto per le medicine (Ier. 46, 11). Gen 28, 8 parla di contatti tra Idumei ed Ismaeliti, elementi arabi.
[F. V.]

BIBL. - C. H. GORDON, in RB. 44 (1935), 35: R. DE VAUX, in RB, 56 (1949) 26 ss.: E. DHORME, Abraham dans le cadre de l'histoire (Recueil Dhorme), Parigi 1951, p. 270 ss.

ISPIRAZIONE
Il termine esprime la qualità unica dei libri elencati nel canone (v.) del Vecchio e del Nuovo Testamento: cioè la loro origine divina; l'astratto deriva dall'aggettivo verbale *** "ispirato da Dio" adoperato da s. Paolo (2Tim. 3, 16) appunto per i libri del Vecchio Testamento. Non c'è verità dommatica più di questa universalmente e concordemente atte stata dalle fonti bibliche, dalla tradizione giudaica (per il V. T.) e cristiana. In I Mach. 12, 9, in Flavio Giuseppe, Ant., inizio, nel Talmud (Sabbath, 16, l) si parla esplicitamente di "libri santi", "sacri", di "scrittura divina". Nostro Signore e gli Apostoli parlano di "parola di Dio" (= le prescrizioni della Legge: *** Mc. 7, 13), "i detti di Dio" (s. Paolo chiama così tutto il Vecchio Testamento: Rom. 3, 2: ***; "le sacre scritture" (Rom. 1, 2), "le lettere sacre" (2Tim. 3" 15). Esplicitamente se ne dichiara autore Dio: Mt. 22, 43 per il Ps. 110 (109); At. 4, 25: «O Signore, tu sei colui che ha fatto il Cielo... e che mediante lo Spirito Santo, per bocca del padre nostro e tuo servo David, hai detto: A che pro cospirano le genti ... ecc.» Ps. 2; Hebr. 3, 7 «Perciò dice lo Spirito Santo...» = Ps. 95 (94), 18 ss. ecc. E se ne afferma ripetutamente l'autorità indiscussa e divina, sia direttamente (Lc. 18, 31; 24, 44-47: «bisogna si adempia quanto di me sta scritto - dice Gesù Risorto - nella Legge, nei Profeti, nei Salmi »), sia nelle argomentazioni (Io. 10, 34 dal Ps. 82 [81], 6: «la Scrittura non può essere smentita); Rom. 1, 16 da Hab. 2, 4; ecc.). Formalmente, l'i. divina è affermata in 2Tim. 3, 15 s. e in 2Pt. 1, 20 s. S. Paolo così scrive: «Quanto a te, rimani fedele (contro le pericolose novità nell'insegnamento della dottrina) alle cose che hai appreso e di cui hai riconosciuto la certezza. Tu sai da chi le hai imparate, e fin da fanciullo tu conosci le Sacre Scritture; esse possono darti la saggezza che mediante la fede nel Cristo Gesù conduce alla salvezza. Ogni Scrittura (nell'insieme e in ogni parte = le Sacre Scritture del v. precedente) è ***; ispirata da Dio e (pertanto) utile per insegnare, ammonire, correggere, educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia perfettamente armato per ogni opera buona». S. Pietro ammonisce i fedeli che la sua predicazione si fonda su basi solidissime, indiscusse: la sua stessa autorità di teste oculare della divina maestà del Cristo, nella Trasfigurazione (1, 12-18) e l'autorità ancora maggiore (di quella soggettiva), delle profezie messianiche, alle quali si deve aderire come a luce che risplende tra il tenebrore di questa terra fino a che non risplenda per ciascuno il giorno del suo incontro con Gesù. Prima di tutto, tengano, però presente che «nessuna profezia della scrittura va lasciata all'interpretazione di, ciascuno ("è cosa d'interpretazione privata" - G. Luzzi; o "è frutto d'interpretazione privata" - De Ambroggi); perché nessuna profezia fu mai proferita per volontà d'uomo, ma gli uomini, portati (mossi, completamente in balia, sotto l'influsso, ***; lo stesso verbo è usato in At. 27, 15 per la nave che non potendo resistere al vento lascia che esso la spinga come e dove vuole) dallo Spirito Santo, han parlato da parte di Dio». Questi due testi si completano a vicenda; il 1° afferma formalmente l'i. per tutti i libri del V. T., il 2°, meno esplicito per l'estensione a tutti i libri, ha un chiaro riferimento alla natura stessa dell'i. Essi, con gli altri, sono un argomento storico del pensiero degli Apostoli e di Gesù N. S. sull'i. Per i libri del Nuovo Testamento non abbiamo argomento biblico di eguale portata. In I Tim. 5, 18 s. Paolo cita come S. Scrittura Deut. 25, 4 insieme a una frase che riscontriamo in Lc. 10, 7; ma non si può asserire con certezza tale riferimento al Vangelo scritto. Chiaramente invece 2Pt. 3, 16 pone le lettere di s. Paolo sul piano delle "altre Scritture". È inutile trascrivere testimonianze dai Padri; fin dagli scritti della stessa epoca apostolica, essi unanimemente affermano l'i. di tutta la S. Scrittura; non solo, ma dicono trattarsi di verità di fede, predicata in modo chiarissimo nella Chiesa (cf. Origene, De Principiis I, 4, 8). In ordine alla natura dell'i., possiamo così classificare il loro insegnamento.
1°) I primi apologeti in particolare, per descrivere l'azione di Dio su l'agiografo, riprendono le espressioni ed immagini bibliche (2Tim.; 2Pt.; Am. 3, 8; Ier, 20, 9: v. Profetismo). con la terminologia che Platone (Tim. 71 E - 72 B; Menon 99 CD; Ion. 533 Dss.), Virgilio (En. VI, 45-51.77-30), Lucano (Farsalia V, 161 ss.) ecc., adoperano per il fenomeno estatico: il profeta è strumento, organo di Dio (Atenagora, Leg. 7, 9, s. Teofilo, Ad Autol. l, 14; 3, 23; Cohort. 8; PG 6, 904 ss.; 1045.1156; 256). Precisando però energicamente, contro i Montanisti, i quali con i citati autori pagani ammettevano l'incoscienza dell'ispirato, che l'autore umano rimane assolutamente conscio e libero sotto l'azione di Dio (cf. Miltiades in Eusebio, Hist. Eccl. V. 17).
2°) Dio "detta", "dice" i libri sacri; s. Ireneo: «le Sacre Scritture sono perfette perché dettate dal Verbo di Dio e dallo Spirito Santo» (Adv. haer. II, 28.2; cf. IV, 10.1; s. Girolamo, Ep. 120, 10; s. Agostino, in Ps. 62, l, ecc. PL 22, 997; 36, 748).
3°) Dio è "autore" (auctor nel latino = scriptor) o scrittore della S. Scrittura (Clemente Alessandrino, Strom. l, 5: PG 8, 717; s. Ambrogio, s. Agostino, s. Gregorio M.: PL. 16, 1210; 42, 157; 75, 517), che viene detta «lettera mandataci da Dio dalla patria lontana» (s. Crisostomo, PG 53, 28; s. Agostino, PL 37, 1159. 1952; s. Gregorio M., PL 77,706). Così s. Gregorio: « Ma è del tutto inutile domandar chi le abbia scritte (queste lettere di Dio all'umanità, che sono le sacre Scritture; chi, cioè di quale strumento Dio si sia servito) quando tuttavia fedelmente si crede che l'autore del libro è lo Spirito Santo. Quegli dunque scrisse che dettò quanto era da scrivere. Quegli scrisse che in quel lavoro fu l'ispiratore e mediante la voce (l'espressione) di colui che scriveva trasmise a noi le di lui vicende perché le imitassimo» (In Iob, praef.).
I documenti della Chiesa si susseguono dal sec. V in poi (EB, n. 28. 30 ecc.). Contro i Manichei che attribuivano, rigettandolo, il Vecchio Testamento al Principio del male, essi professano e sanciscono l'unità dei due Testamenti e l'identità del loro autore divino. Così ancora il Concilio Fiorentino (EB, n. 48). Il Concilio di Trento (EB, n. 59-60), contro i Protestanti che all'inizio ritenevano l'i. biblica, estendendola anzi indebitamente financo agli apici e agli accenti che sono posteriori agli originali, ma rigettavano come non sacri alcuni libri, definì il Canone (v.), e confermò l'i. divina di tutti i libri che lo compongono. La definizione dommatica di questa verità fu data in modo solenne dal concilio Vaticano (24 apr. 1870; EB, n. 79), contro i razionalisti (da Ioh. Sal. Semler, 1725-91, G. Paulus, D. Strauss in poi) e i semirazionalisti (Schleiermacher, Rothe ecc.), che consideravano e trattavano ormai i libri sacri alla stregua di ogni altro libro. Definizione ripetuta da Leone XIII nella Providentissimus; da Pio X (decr. Lamentabili, in EB, n. 200 s.) nella condanna dei modernisti che dell'i. ritenevano soltanto il nome (Loisy: «Dio è autore della S. Scrittura, come è architetto della basilica di s. Pietro»); da Pio XII nella Divino afflante Spiritu in AAS, [1943] 297-326).
Natura della Ispirazione
S. Tommaso, specialmente nella 2-2, qq. 171-174, ha ordinato sistematicamente gli elementi biblici e patristici, illustrando luminosamente l'azione di Dio su l'uomo, suo strumento, e l'effetto che ne risulta. Egli tratta direttamente dell'i. profetica, o influsso divino sul profeta perché parli in suo nome (v. Profetismo), e non dell'ispirazione in ordine alla composizione dei libri sacri. Ma l'identità tra le due i. è sostanziale; sicché la trattazione di s. Tommaso viene ripresa integralmente per l'i. biblica. L'Aquinate denunziò principi fondamentali così sodi, sicuri e decisivi che, per lunghi secoli, quasi più nulla fu aggiunto d'importante alla sua esposizione. Leone XIII nell'Encicl. Providentissimus (EB, nn. 81-134), basilare e determinante specialmente al riguardo, riprende integra la dottrina di s. Tommaso, applicandola dettagliatamente alla i. biblica in ordine alla composizione dei libri sacri; ricondusse così all'unità e alla chiarezza tomistica, quanti, tra i cattolici, se n'erano allontanati per seguire nuove vie. Tale dottrina è ripresa, confermata e su qualche punto chiarita dall'enc. Spiritus Paraclitus di Benedetto XV (ER, nn. 44-495), dalla Divino Afflante Spiritu, e dalla Humani Generis (AAS, [1950] 563.568 ss. 575 ss.). L'i., come azione divina in se stessa considerata, è un dono, un "carisma" elargito da Dio non per la santificazione personale dell'ispirato (grazia santificante), ma per il bene della Chiesa. È un carisma dell'ordine intellettuale: essenzialmente è un lume soprannaturale, infuso da Dio, sotto il quale l'uomo emette i suoi giudizi. Non è pertanto stabile nell'uomo, ma solo è infuso in ordine al libro da scrivere, e in periodi a ciò destinati Non è necessariamente connesso con la santità dell'individuo; Dio sceglie chi vuole. Né l'ispirato è cosciente di tal dono. A quest'azione divina, l'uomo reagisce vitalmente. Se Am. 3, 8 («il leone ruggisce, chi non trema; Dio parla, chi non profetizza?») e 2Pt. 1, 21 potrebbero far pensare ad una mancanza di libertà, Is. 6, 5-8. 11; Ier. 20, 9 con 1, 6; Ez. 1, 3; 3, 22 con 3, 17-21; specialmente Lc. 1, 1-5; 2Mach. 2, 24.33, attestano chiaramente la piena coscienza, la vitale corrispondenza e pieno funzionamento della mente e della volontà dell'ispirato (A. Bea, in Studia Anselmiana, 27-28 Roma 1951, pp. 47-65). Si pensi alla diversità di stile, alle manchevolezze di forma ecc. Il grande merito di s. Tommaso è, principalmente, nel metodo. Non procede astrattamente, costruendo sui termini intesi genericamente. Ma poggia solidamente sui dati biblici e patristici. Dio è autore (scrittore), l'uomo è autore; Dio ha adoperato dell'uomo come strumento; gli ha dettato (dictare = ispirare), ispirato tutto il libro. Tutto il libro è di Dio, tutto il libro è dell'uomo; principalmente di Dio, come ogni effetto che procede insieme dalla causa prima e da una causa seconda strumentale. Non possiamo scostarci da questi dati; non possiamo creare un sistema che, per quanto razionale, neghi o sminuisca la parte di Dio o quella dell'agiografo, così come è affermata in modo indiscusso dalla tradizione ed è definita dalla Chiesa. Basti considerare l'energia con cui i Padri rigettarono i Montanisti che esageravano la parte di Dio, riducendo l'ispirato ad un incosciente; eguale errore commisero i primi Protestanti, parlando di dettatura nel senso più rigoroso e riducendo l'ispirato ad una macchina. Autori cattolici, invece, per difendere la libertà e la vitalità dell'uomo sotto l'i., e, più recentemente, per spiegare eventuali imprecisioni o errori fisico-storici, cercarono di restringere quanto più possibile la parte di Dio. Si disse che alcuni libri storici potevano dirsi ispirati (Lessio e Bonfrère) o realmente lo erano (D. Haneberg) solo perché dichiarati immuni da errore, e approvati dalla Chiesa (la cosiddetta i. susseguente). Ma non si badava che in tal modo il libro scritto dal solo uomo, per quanto approvato rimaneva libro umano e nient'affatto divino; Dio non ne era l'autore. G. Iahn ritenne che bastasse per l'i. la semplice assistenza dello Spirito Santo, concessa ad es. al Sommo Pontefice quando definisce solennemente una verità di fede, per preservarlo da ogni errore. Ma è chiaro che tale assistenza negativa rende il libro infallibile, ma nient'affatto divino, come esigono i dati biblici e tradizionali. Nessuno ha mai chiamato divine le definizioni solenni e infallibili del Sommo Pontefice; nessuno può mai avvicinarle alla parola di Dio, alla S. Scrittura. Il Franzelin, seguito da molti, fino all'Encicl. Providentissimus, per assicurare la libertà dell'agiografo, credette di dividere i compiti assegnando le idee a Dio, e il loro rivestimento con le parole, con la forma letteraria, all'agiografo. Era una vivisezione illogica, contraria alla psicologia: in noi non esistono idee pure, in tutto separate dalle parole. Ma principalmente era una incomprensione della Tradizione: autore = scrittore. Si ricordi quanto ho trascritto da s. Gregorio: Quegli scrisse che dettò (ispirò). Il Franzelin volle procedere in una maniera astratta: Dio è autore. Vediamo un po' se può dirsi tale, anche se ha soltanto dato le idee, immettendole nella mente dell'uomo, come dei quadri incompleti si immettono in una pinacoteca, perché vi siano rifiniti e conservati. I Padri invece insistono (sulla scia degli Apostoli) a considerare anche le parole, come divine o comunque connesse con Dio; ad argomentare pertanto da esse (Hebr. 8, 13; 12, 26 ecc.). E quanto alle stesse idee, esse sono di Dio e dell'uomo insieme. Praticamente non c'è un solo istante in cui l'uomo agisce da solo, come nulla è realizzato da parte di Dio se non per mezzo dell'uomo. Quanti poi tra i recenti vollero restringere l'i. alle sole verità dogmatiche (F. Lenormant, S. Di Bartolo) per ammettere nelle altre parti l'errore, oltre a quanto ora osservato andavano direttamente contro il principio universalmente attestato dai Padri e dal Magistero infallibile che tutta la S. Scrittura è ispirata e nessun errore può in essa trovarsi. Per questi ultimi autori specialmente, ma anche per molti dei precedenti, causa di errore fu la mancata distinzione tra i. e rivelazione. Tutto nella Bibbia è ispirato, ma non tutto è rivelato (Synave-Benoit, pp. 277-82.300-309.335-38). La rivelazione importa la comunicazione da parte di Dio dell'oggetto, della materia stessa da esporre. Invece, ordinariamente l'agiografo scrive quanto conosce con le sue forze, ha appreso con diligenza (Lc. 1, 1.5; 2Mac. 2, 24-30). L'essenziale, come diceva s. Tommaso è il lume divino per giudicare la materia comunque percepita, sia per rivelazione, sia per via naturale, con lo studio e la ricerca. Così gli evangelisti ci narrano quanto essi stessi (Mt., Io.) hanno visto e sentito o quanto hanno appreso (Mc., Lc.) a viva voce dagli Apostoli. Già s. Tommaso poneva una netta distinzione tra la raccolta, la preparazione del materiale, e la redazione scritta. L'azione di Dio incomincia con l'inizio della composizione; la preparazione previa non appartiene all'i. In altri termini, la S. Scrittura non va considerata come un libro creato e dato all'uomo, quasi comunicazione, sia pure parziale, della divina onniscienza; Dio invece ha voluto parlare agli uomini, comunicare con loro per iscritto, per mezzo di un loro simile, adattandosi alla di lui, alla nostra mentalità. S. Tommaso ha ben sintetizzato tutta la dottrina cattolica nel principio: Dio autore principale, l'agiografo autore strumentale (Quodl. 7, a. 14, ad 5). Per spiegare il processo dell'azione di Dio sulle facoltà dell'agiografo basta svolgere il principio ontologico di causa strumentale. La causa agente può essere duplice: principale e strumentale. La prima opera per sola virtù propria; la seconda solo in forza di una mozione previa che riceve dalla precedente. Per tale mozione, lo strumento viene elevato ad una capacità superiore alla sua natura e adeguata alla virtù dell'agente principale, ed applicato all'azione. Il pennello ha una sua virtù propria, quella di stendere i colori; per dipingere un quadro è necessario che l'artista lo applichi e gli comunichi la sua capacità (stendere i colori secondo determinati disegni e regole). In tal modo lo strumento oltre alla propria capacità ne viene ad acquisire, quando è in mano dell'artista, una più alta, superiore alla sua natura. Non c'è attimo in cui il pittore da solo e, ancor di più, il pennello da solo, operino per l'effetto; il quale pertanto è tutto dell'uno e dell'altro, sebbene in modo diverso, ché allo strumento appartiene solo per virtù comunicatagli dall'agente principale. Si badi ancora: lo strumento in mano all'artista, non muta natura: se è difettoso rimane tale; e attua la virtù ricevuta dal. l'agente principale, esplicando intera la propria capacità. Nessuna meraviglia quindi se nell'effetto si riscontrano le tracce dei due che hanno insieme concorso a produrlo; e quindi gli eventuali difetti dello strumento. Per scrivere un libro:
A) L'intelletto:
1°) deve concepire le idee, connetterle esprimendo i vari giudizi, e infine pronunziarsi sulla loro verità e certezza;
2°) questo lavorio intellettuale potrebbe rimanere allo stadio di semplice "concezione"; è necessario che l'intelletto formuli la decisione di metterli per iscritto per comunicarli agli altri;
3°) scegliere e curare la forma esterna (o veste letteraria) più adatta: genere letterario, stile, scelta dei vocaboli ecc.
B) Il giudizio (2°: detto pratico) dell'intelletto, muove la volontà" che interviene e inizia l'attuazione.
C) La volontà muove ed applica tutte le altre facoltà inferiori, esecutive (memoria sensitiva, fantasia, nervi ecc.). Per la concezione delle idee, Dio intero viene irrobustendo, aumentando la luce del nostro intelletto. Gli scolastici chiamano intelletto agente la nostra facoltà nel suo primo atto, in ordine alla concezione dell'idea. Gli oggetti esterni, penetrano in noi attraverso i sensi, che trasmettono così alla fantasia l'immagine sensibile di quelli (= specie sensibile espressa). Tale specie viene investita dalla luce dell'intelletto, che può quindi esprimere l'idea immateriale. Questa seconda operazione (dell'intelletto possibile, secondo la terminologia scolastica) è in stretta connessione con la prima, anche in ordine alla qualità dell'idea: se la luce è potente, l'idea è chiara, distinta. Noi si parla di intuito, di genio: è la potenza del nostro intelletto che in dati uomini è straordinaria. L'azione di Dio sull'intelletto è dunque duplice: potenzia ed eleva il lume naturale, quindi applica ed eleva l'intelletto in modo che esprima l'idea, formuli giudizi ecc. L'idea e i giudizi sono pertanto divini e umani. Ecco perché non possono contenere errori, sono infallibili. L'effetto ha questa caratteristica, unicamente per la virtù divina comunicata all'uomo. Allo stesso modo Dio agisce per il giudizio cosiddetto "pratico". Alcuni cattolici avevano pensato di fare incominciare qui l'azione divina. In realtà, l'intelletto emettendo tale giudizio ritorna sulle idee già formulate, le approva; basterebbe l'influsso di Dio su tale revisione per essere sicuri della loro verità e certezza. Ma in tal caso, le idee rimarrebbero quanto alla loro concezione, umane e soltanto umane. Invece si tratta di idee divine. Leone XIII dice nettamente che l'azione di Dio si esercita su l'agiografo «perché concepisca perfettamente», quanto Dio vuole. La scelta dei vocaboli e della forma esterna è psicologicamente inseparabile dalla concezione delle idee e dalla formulazione dei giudizi; ad essa si estende egualmente l'influsso divino in modo che le verità intese da Dio, siano espresse «in modo adatto». È la cosiddetta «i. verbale». Il Franzelin e molti altri, vollero negarla, partendo da un concetto astratto di "autore", quasi non si trattasse di "scrittore". In realtà, non si può sottrarre all'influsso divino questa parte così importante e, di fatto, inscindibile dalla precedente; anzi sarebbe una violenza contro il principio ontologico di causa strumentale. D'altronde tutti gli autori, dopo l'Encicl. Providentissimus, sono ritornati alla dottrina tomista. È necessario, inoltre, perché Dio sia vero autore del libro, che egli intervenga egualmente sulla volontà dell'agiografo, in modo che questi ponga tutti gli atti necessari per l'esteriorizzazione del lavoro dell'intelletto. E Dio muove (applica) ed eleva la volontà, sì che l'effetto si produca infallibilmente. Si tratta di mozione previa (come abbiamo detto circa i rapporti tra agente principale e strumento), fisica (non soltanto morale, ad es. le circostanze esterne che possono indurre uno a scrivere: le preghiere dei Romani a s. Marco perché scrivesse l'evangelo), interna, immediata; altrimenti l'uomo non sarebbe causa strumentale. Questo influsso lascia integra la libertà; come avviene per la grazia divina; si tratta dell'azione sublime della Causa prima. Gli stessi autori sacri sentono di decidersi e di scrivere liberamente (Lc. 1, 1; cf. Rom. 15, 15 ss. 2Cor 7, 8 s. ecc.). Iddio che ha dato l'essere alle creature e le conserva, muove anche ciascuna di esse secondo la condizione della propria natura, le libere pertanto conservando e rispettando la loro libertà (s. Tommaso, I, q. 83, a. 1, e ad 3; De Malo. q. 3, a. 2). Iddio «assiste gli scrittori sacri in modo tale che possano debitamente esprimere, con infallibile verità, tutto ciò e soltanto ciò che Egli volle». Con tale frase, Leone XIII parla dell'influsso positivo di Dio anche sulle facoltà esecutive. Influsso che non è necessario sia immediato, cioè che si porti su ciascuna di esse direttamente; basta infatti che esso si eserciti tramite la volontà, dalla quale tutte quelle dipendono e sono mosse. «Iddio presta allo scrittore una particolare e continua assistenza, finché egli non abbia terminato il libro» (Benedetto XV, Encicl. Spiritus Paraclitus, in ER, n. 448). Nulla pertanto dell'agiografo è sottratto a quest'azione divina; non c'è momento in cui egli lavori da solo. Tutto il libro pertanto è egualmente ed integralmente ispirato, cioè divino e umano. L'uomo non ha coscienza dell'azione di Dio; ha faticato per raccogliere il materiale e fatica per comporre il libro. Egli, sotto l'i., oltre ad essere libero, esplica intera la sua attività, applica e manifesta le sue doti, la sua cultura, la sua indole, la sua mentalità. Ecco perché già i Padri facevano rilevare le differenze di concezione, di stile; la sublime poesia del colto Isaia, la rudezza di Amos; i concetti propri a s. Giovanni nel IV Vangelo, e a s. Paolo (Rom. ecc.) a proposito della Redenzione; le differenze degli stessi Sinottici. Tutto il libro è di Dio e dell'agiografo. Solo esplicando la propria virtù, l'uomo ha attuato quella contemporaneamente comunicatagli da Dio; e così noi sapremo cosa Iddio ha voluto dirci, stabilendo cosa l'agiografo ha inteso esprimere (v. Ermeneutica). Tutta la Bibbia è ispirata, ha autore Dio, ed è pertanto "parola di Dio". Ma non allo stesso modo; ché l'i. non fa di ciascun elemento del libro la rivelazione di un pensiero divino. Quando si dice che l'accessorio è ispirato come l'essenziale, non si afferma che lo sia allo stesso grado e per se stesso. L'accessorio è ispirato in funzione dell'essenziale e nella misura in cui lo serve. Lo scrittore intende soltanto scrivere la "storia della salvezza" o "dei nostri rapporti con Dio", illuminare i lettori al riguardo e offrire loro quanto è necessario per salvarsi e glorificare Dio. Ma non dà un arido elenco di formule dogmatiche e di precetti; non offre un seguito di "giudizi formali", ma scrivendo da uomo per uomini egli adopera mille mezzi per presentare, illustrare e fare accettare il suo messaggio. Così nessun dettaglio è superfluo, quando contribuisce a rendere il suo libro più bello, più piacevole e pertanto più utile. Il primo verso della Bibbia è un giudizio formale, una verità dommatica fondamentale: «All'inizio Dio creò l'universo». Questo è essenziale; nei vv. seguenti è descritto in maniera popolare e artistica il modo di questa creazione; modo rispondente alle imperfette conoscenze del tempo. È l'accessorio. È ispirato, senz'altro. Ma non per sé; ché la Bibbia non vuol essere, non è un trattato. scientifico di geologia, astronomia, ecc. E anch'esso "parola di Dio" in quanto si trova nella S. Scrittura, e ve: ram ente Mosè così pensava e così scrisse; ma non è "formale asserzione di Dio", rivelata da Dio. Quando l'autore sacro scrive che il cane di Tobia moveva la coda, lo fa col conscio talento di un narratore che vuole interessare col pittoresco. Ma (è chiaro) non afferma questo dettaglio, in se stesso; l'utilizza soltanto in funzione di tutto il libro, e secondo il ruolo, abbastanza modesto, di semplice ornamento. Allo stesso modo, dunque, ciascun elemento del libro sacro dev'essere giudicato secondo la sua effettiva contribuzione allo scopo e all'insieme del libro; ma non lo si può staccare dal contesto e dargli un valore assoluto, tradendo le intenzioni dell'autore. Facendo lavorare lo spirito umano senza violare il suo modo proprio di agire, l'influsso ispiratore penetra tutto ciò che è frutto di questo lavoro, ma ne garantisce ciascun elemento nella misura intesa, voluta dall'autore. Quando questi vuole insegnare come assolutamente vera una proposizione (Gen. 1, 1), questa è assolutamente e infallibilmente vera; quando invece egli presenta, adoperando le conoscenze, il linguaggio del tempo, una descrizione artistica sul modo della creazione, con lo scopo di raccomandare l'osservanza del sabato, senza entrare in merito (ché non era sua intenzione) al valore assoluto, Dio ha voluto sì parlarci in tal modo (i vv. sono egualmente ispirati) e pertanto siamo soltanto sicuri che l'autore così pensò e scrisse. Un elemento che vi sta soltanto come ornamento letterario, è ispirato ma semplicemente come tale. Così quando l'agiografo esprime dubbi, timori, sentimenti talora imperfetti (Ier. 15, 10; Gal. 3, 1): Dio vuole siffatte espressioni, e l'i. ci assicura che effettivamente l'agio grafo dubitò ecc.; i sentimenti espressi rimangono esclusivamente umani. Infatti non si tratta qui direttamente e immediatamente di "giudizi", cioè di atti dell'intelletto, ma di atti della volontà. In quanto vengono espressi nel libro ispirato (solo in questo punto ha inizio l'i.), implicitamente viene asserito che l'agiografo ebbe questi atti. E pertanto questo giudizio deve essere infallibilmente vero. Gli stessi atti, in se stessi, però, siccome non appartengono all'intelletto, rimangono quali erano, semplici atti dell'agiografo. Inerranza. Questione biblica. L'aver confuso i. e rivelazione, e l'aver preteso quindi che ogni elemento della Bibbia purché ispirato fosse "parola di Dio" in senso univoco, cioè "rivelazione di Dio", fu l'unica causa dello sbanda mento di alcuni cattolici dinanzi alle difficoltà formulate contro l'i. della Bibbia, dalle scienze fisiche e dai dati archeologici. Ora, che l'errore sia incompatibile con l'i. è una semplice deduzione dai principi esposti: incompatibilità insegnata senza attenuazioni o dubbi da tutte le fonti e dal Magistero ecclesiastico. Non c'è al riguardo una definizione formale, ma si tratta egualmente di verità di fede: la Scrittura ispirata non può contenere errore. Naturalmente si tratta dei testi, termini diretti dell'azione di Dio e del lavoro dell'agiografo; le versioni partecipano dell'i. e dell'inerranza solo e in quanto rendono fedelmente il senso e la forma di quelli. Si tratta di quanto l'agiografo ha voluto esprimere e nel modo con cui lo ha formulato. Tale senso letterale va dedotto secondo i principi dell'Ermeneutica (v.) e tenendo conto del genere (v.) letterario prescelto dall'agiografo. La verità è la rispondenza adeguata della nostra mente con l'oggetto. Questa rispondenza si ha nel giudizio; cioè nell'atto formale con cui l'intelletto afferma la sua proporzione con l'oggetto della conoscenza. Ora, tale giudizio formale e la verità che esso esprime, può esser limitato da tre moventi principali: da parte dell'oggetto, quando l'intelletto non lo conosce in se stesso, ma sotto uno solo dei suoi molteplici aspetti (oggetto formale della conoscenza); da parte dello stesso soggetto, quando questi non s'impegna, e il suo giudizio è riservato e dalle sfumature varie: come probabile, come possibile, come congettura ecc.; da parte della stessa enunciazione, quando non vuole l'assenso del lettore, esponendo ad es. un'opinione personale, o adottando un genere letterario fittizio, nel quale i particolari stan lì non come storici, ma come espressioni letterarie della verità insegnata. Con la prima limitazione (stabilire l'oggetto formale) si risolvono facilmente le difficoltà desunte dalle scienze fisiche: geologia, astronomia, zoologia. La S. Scrittura non è un trattato scientifico: «lo Spirito Santo - il quale parlava per mezzo degli agiografi - non volle insegnare agli uomini cose che non hanno alcuna utilità per h salute eterna» (s. Agostino, Gen ad litt. 2, 9.20; PL 34, 270; cf. 42, 525). L'agiografo descrive «ciò che appare ai sensi» (s. Tommaso, I, q. 68, a. 3); segue le concezioni del tempo, il linguaggio comune. Non è suo compito dare un giudizio al riguardo; né lo avrebbe potuto fare (ad es. affermare che è la terra a girare intorno al sole, ecc.) senza una rivelazione, che non solo era inutile alla storia della salvezza, ma addirittura dannosa, ché nessuno l'avrebbe creduto, dato che i sensi vedevano il sole, la luna ecc. muoversi e girare intorno alla terra. Così nessuno taccia di érrore chi parla del tramonto e del sorger del sole, quando ciò non avvenga in un manuale di astronomia, ma in un romanzo dove è adoperato il linguaggio comune, e dove sarebbe invece erroneo andare a cercare un giudizio formale sulla natura intima dei suddetti fenomeni. «Lo Spirito Santo non volle insegnare agli uomini l'intima costituzione della natura visibile..., e perciò nel descrivere i fenomeni della natura o usa un linguaggio figurato oppure ricorre al linguaggio corrente il quale si conformava alle apparenze sensibili» (Providentissimus, in EH, n. 121). Questa stessa limitazione (oggetto formale) va tenuta presente quando si tratta della storia. Altro infatti è il punto di vista della storia scientifica, che ricerca per se stessa l'acribia nel dettaglio dei minimi fatti; altro quello della storia religiosa o apologetica che intende trarre le grandi lezioni dalla polvere degli avvenimenti e svolge questi, soltanto a tale scopo. «Di qui però non segue che l'agio grafo sacrifichi i fatti alla sua tesi; anzi egli sa bene che "fanno orrore a Dio le labbra bugiarde" (Prov. 12, 22), e perciò non ricorre a "pie" frodi. Ne segue solo che la sua narrazione non sarà completa, nel senso che di tutto il materiale che ha davanti sceglie solo quello che ritiene adatto al suo scopo, omettendo il resto. «Sarebbe certo un anacronismo pretendere che la storia biblica rivesta i caratteri scientifici della storiografia come la concepiamo oggi, però lo storico israelita non mancava del senso critico naturale sufficiente per distinguere il vero dal falso nell'uso delle fonti. Queste poi, come tutti ammettono, erano tramandate con grande fedeltà - da una straordinaria tenacia di memoria» (Perrella, v. bibl., p. 62). Certo non si può affermare per la storia quanto si è detto per le scienze fisiche. La storia esige che il fatto narrato sia effettivamente avvenuto. Ma bisogna tener presente le altre due limitazioni su accennate. L'autore sacro non sempre afferma in maniera categorica; ora Dio fa sua e approva l'affermazione dell'agiografo, così com'è, nelle varie sfumature. Non può certo permettere che presenti come certo ciò che è dubbio o. viceversa; allora avremmo l'errore. Ma l'autorizza o piuttosto lo spinge a limitare la sua inchiesta personale, al grado di certezza richiesto dall'importanza del soggetto nell'economia o nel quadro generale del libro. L'autore sacro pertanto può citare, prendere una narrazione, lasciandone interamente alla fonte la responsabilità; senza approvare o disapprovare e senza espressamente annotare che si tratta di una citazione (v. Citazioni implicite). Non è tuttavia esatta la generalizzazione, fatta da alcuni, dei pochi esempi e tardivi addotti da L Guidi, L'historiographie chez les Sémites, in RR, N. S. 3 (1906) 509- 19. E infine, l'autore può ricorrere a una finzione per proporre un evento storico pregno di ammaestramento religioso o morale (v. Giuditta), o una verità religiosa (v. Giona; la Cantica), e morale (v. Giobbe, Parabola). In tal caso, la difficoltà storica sorge soltanto dal misconoscimento dell'intenzione dell'agiografo; si vogliono considerare come storici, particolari scelti e proposti non come tali, ma come semplici figure letterarie. Ecco la necessità di fissare il genere letterario, per ciascun libro; e quindi stabilire il senso letterale secondo le regole proprie a ciascuno di essi (v. Generi letterari; Divino Afflante Spiritu, in ER, nn. 558-560). Ben può dirsi ormai che la soluzione di questi punti, oggetto della tanto celebre Questione biblica, dibattuta agli inizi di questo secolo, tra i cosiddetti fautori del. la "scuola larga" (v. Hummelauer, specialmente M.J. Lagrange, Prat ecc.) e i timidi conservatori, in linea teorica è ormai risolta. L'Encicl. Divino Afflante Spiritu, con l'ammissione e la spinta allo studio dei generi letterari, ha risolto la disputa in favore della prima, almeno in parte e con le opportune rettifiche, particolarmente del suo grande pioniere M. J. Lagrange; con le preziose e autorevoli precisazioni che ca. 50 anni di studio e di ricerche permettevano di fare. Giustamente Pio XII constatando i grandiosi progressi compiuti in questi ultimi 50 anni (Divino Afflante Spiritu, 1943) dall'esegesi cattolica, ne attribuiva il meri. to precipuo alla Providentissimus di Leone XIII; si deve infatti a questa enciclica d'aver fissato con chiarezza la dottrina esatta sull'i.; concezione teologica precisa che permette all'esegeta di procedere svelto e sicuro nel suo compito paziente e grandioso. Cf. G. Castellino, L'inerranza della S. Scrittura, Torino 1949. Concludendo, ecco la definizione che concordemente danno ormai tutti i cattolici: L'i. è un influsso soprannaturale carismatico, per cui Dio, autore principale della S. Scrittura, subordina a sé, eleva ed applica tutte le facoltà dell'agiografo, suo strumento, in modo che l'agiografo concepisca con l'intelletto, voglia scrivere e fedelmente consegni per iscritto tutte le cose e le cose soltanto che Dio vuole siano scritte e consegnate alla Chiesa. Trattandosi di fenomeno soprannaturale, noi non possiamo conoscere quando un libro sia ispirato se Dio non ce lo riveli, mediante il Magistero della Chiesa, cui Egli ha affidato tale compito, dotandola di infallibilità. Cf. Romeo (v. bibl.), Criterio dell'i. biblica, pp. 175- 189. La rivelazione di Dio è il criterio remoto; il Magistero della Chiesa comunicanteci la tradizione, è il criterio prossimo. Esso è infallibile e pertanto non può indurci in errore, universale, cioè vale per tutti e singoli i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, e soltanto per essi; è chiaro cioè accessibile a tutti, che non richiede studi storici, indagini personali, ma solamente umile e devoto assenso all'autorità infallibile della Chiesa.
[F. S.]

BIBL. - C. PESCH, De inspiratione S. Scripturae, Freiburg i. B. 1906 (ristampa 1925); trattato fondamentale; ID., Supplementum., ivi 1926; A. BEA, De inspiratione Scripturae Sacrae, Roma 1930; P. SYNAVE - P. BENOIT, La Prophétie - (S. Thomas, Somme Théologique), Parigi 1947, pp. 269-378; ma cf. critica di P. M. LABOURDETTE, in Revue Thomiste 50 (1950) 415-419; P. BENOIT, Inspiration, in Initiation Biblique di ROBERTTRICOT, 3a ed., Parigi 1954, pp. 6-45; cf. la critica di J. COPPENS, in EThL 31 (1955) 671 ss; A. ROMEO, L'ispirazione biblica, in Il Libro Sacro, I, Introduzione generale (SPADAFORA-ROMEO-FRANGIPANE), Padova 1958, pp. 55-189: trattazione accuratissima dalla informazione ricca e minuziosa, con la discussione dei problemi più recenti; H. HOPFL, Initroductio Generalis in S. Scripturam. 6a ed., a cura di L. LELOIR, Napoli-Roma 1958: de inspiratione: pp. 19-118; G. PERRELLA - L. VAGAGGINI, Introduzione alla Bibbia, I, Torino 1960, pp. 10-72: praticamente è la 3a ed., riveduta e aggiornata della Intr. gen. che faceva parte dei volumi sussidiari della collezione La S. Bibbia dello stesso editore Marietti.

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