POVERTÀ E RICCHEZZA - PREDESTINAZIONE - DIZIONARIO BIBLICO

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POVERTÀ E RICCHEZZA - PREDESTINAZIONE
POVERTÀ E RICCHEZZA
Nel Vecchio Testamento
Nel Vecchio Testamento nella retribuzione collettiva riguardante la nazione, come tale, che era la contraente dell'alleanza, la prosperità temporale era considerata benedizione di Dio e premio dell'osservanza dei divini precetti: cf. Lev. 26; Deut. 28; e passim nei libri profetici. Si tratta di sanzione adeguata al soggetto. Per il singolo individuo, analogicamente, la ricchezza veniva considerata benedizione e premio divini, la p. un castigo. L'è che gli Ebrei, come gli antichi Semiti, avevano un'altissima idea della divina Giustizia e ne volevano constatare, toccare con mano le sanzioni, e tra queste c'era la miseria per il peccatore o i suoi discendenti, e la ricchezza per il giusto (cf. Ps. 109 [108]). Ma ben si notava la prosperità dell'empio; e alla retribuzione personale qui sulla terra, la letteratura sacra degli Ebrei, - unico esempio tra i Semiti -, aggiunge la retribuzione oltre la tomba, che compensa e sana ogni squilibrio (cf. Ps. 49; 73 [4S; 72]; in Rivista Biblica, 1 [1953.] 207-215). Il problema generale è trattato direttamente in Iob (v. Giobbe); con la netta affermazione: le sofferenze (e perciò anche la p.) possono colpire il giusto, per provarlo, per purificarlo. E nei Salmi, nei libri Sapienziali viene celebrato il povero che è fedele a Dio, in opposizione al ricco insipiente e stolto: cf. Prov 19, 1.22; 28, 6; Eccle. 4, 13; 6,8; 9, 15 ecc. Spesso nei Salmi il povero perseguitato non è altro che il giusto che soffre per rimanere fedele al Signore, nella cui protezione e Provvidenza confida.
Nel Nuovo Testamento
Nella nuova Economia, nel regno spirituale dell'amore fondato dal Redentore, i valori umani cedono nettamente il posto all'unico valore immutabile e reale, quello dell'anima adorna della grazia, figlia di Dio, erede del cielo. Nelle Beatitudini (v.), preludio della magna carta del Regno, Gesù ha fissato, in accenti sublimi, questo rovesciamento. «Beati i poveri», «Guai a quanti agognano le ricchezze, pongono in esse la loro consolazione». I meno favoriti della fortuna, gli «affamati e assetati», che accettano tale stato dalle mani del Signore, sono nella condizione migliore di accogliere il suo invito: - chi vuol venire dietro di me, pigli la sua croce assidua e mi segua - (Mt. 16, 26; Lc. 9, 23). E Gesù precisa il suo insegnamento (Mt. 5; 6). Le ricchezze, anziché essere uno stato di privilegio, costituiscono un pericolo. Non c'è alcun obbligo di disfarsene, ma c'è il dovere di usarne bene, per il precetto fondamentale ed unico: l'amore di Dio e del prossimo (cf. Mc. 10, 17-25). Se la ricchezza, infatti, è un pericolo, una tentazione, c'è qualcosa di più forte, di più potente che aiuta l'uomo, quando questi lo voglia, a superare anche quest'ostacolo: è la grazia di Dio. L'elemosina (v.), quando si trattasse di r. male acquisita, è il mezzo offertoci per la riparazione: «Voi purificate l'esterno della coppa, ma l'interno è pieno di rapina. Date il contenuto in elemosina ed ecco che tutto diventa puro per voi» (Lc. 11, 41). La parabola del povero Lazzaro e del ricco, dal cuore chiuso alla carità e insensibile per i beni dello spirito (Lc. 16, 19-31), riconferma e sintetizza i vari elementi ora esposti. In I Tim. 6, 5-17, s. Paolo si fa eco dell'insegnamento di Gesù. «Quanto a quelli che vogliono arricchire ... e che per la grandezza del loro desiderio, mostrano quanto siano attaccati alla r., essi si mettono nella tentazione e nella rete, e in molti desideri insensati e vergognosi che precipitano l'uomo nella rovina. Perché la radice di tutti i mali è l'amor del denaro: alcuni, per essersi abbandonati ad esso, han deviato lungi dalla fede...». «Ai ricchi ordina di non inorgoglirsi, di non riporre la loro fiducia e la loro speranza nella incerta ricchezza, ma in Dio che ci elargisce tutto con prodigalità perché ne godiamo: ordina loro di fare il bene, di arricchirsi di opere buone, d'esser generosi, socievoli, tesorizzando, per sé, un buon fondamento per il futuro, per acquistare la vita vera». Nella gamma che va dallo stretto necessario per la salvezza eterna, al più alto grado della perfezione cristiana troviamo le due massime evangeliche: «Non potete essere schiavi di Dio e del danaro», bisogna scegliere; la giustizia e la pratica della carità (Mt. 6, 24; cf. Col. 3, 5); e l'altra: «Se vuoi esser perfetto, va', vendi quanto hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e vieni dietro a me portando la croce) (Mc. 10, 21).

BIBL. - F. SPADAFORA, Temi d'esegesi, Rovigo 1953, pp. 320-H: A. GELIN, Les pauvres de Yahvé (Témoins de Dieu, 14), Parigi 1953.

PREDESTINAZIONE
La parte che Dio ha nella salvezza eterna degli uomini. Essa è espressa formalmente da s. Paolo in Rom. 8, 28 ss. «Noi sappiamo che in tutte le cose Dio collabora al bene di quelli che l'amano, (cioè) di quelli che sono i suoi eletti per il suo libero disegno. Perché quelli che Egli ha prescelti con amore «pre-amati»; (conoscere con provvida cura), li ha anche predestinati a riprodurre l'immagine del suo Figliuolo, perché questi divenga così il primogenito di una moltitudine di fratelli; quelli che ha predestinati, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati, li ha anche glorificati». Quelli che amano Dio non formano tra i cristiani una categoria speciale. Tutti i cristiani di Roma, ai quali Paolo scrive, sono di diritto nel Cristo. Lo stesso vale per «quelli che sono stati chiamati secondo il disegno» (di Dio; ***, cf. Eph. 1, 11; 3, 11). S. Paolo non intende indicare una categoria a parte nella comunità cristiana. Egli vuole ricordare ai fedeli, a tutti i fedeli, che la loro vocazione alla fede ha avuto come principio il disegno divino di conferir loro questo beneficio soprannaturale; al punto di partenza della loro conversione al cristianesimo, ci fu da parte di Dio una libera iniziativa di grazia. La distinzione di due classi nei chiamati al Cristianesimo, gli uni predestinati alla gloria e gli altri no, ammessa da s. Agostino, non ha alcun fondamento nel testo ed è contraria a tutto il contesto (tutti gli esegeti moderni); ed inoltre, esula affatto da tutto il resto del Nuovo Testamento. Per s. Paolo, il chiamato è ogni battezzato, ogni fedele che ha abbracciato il cristianesimo. E in un'esortazione nella quale l'Apostolo si propone di dimostrare che l'ultimo effetto della Redenzione (glorificazione del nostro corpo, con la risurrezione) è sicuro, sarebbe proprio incoraggiarli dicendo: «Abbiate tutti confidenza, perché, alcuni tra voi sono predestinati»! È davvero impossibile argomentare con minor logica! I vv. 29 s. spiegano il precedente: ci mostrano la concatenazione degli atti divini che devono condurre la comunità dei cristiani alla vita gloriosa, nella conformità al Cristo risorto. Non si tratta di semplice prescienza "quos prescivit"; ma "conoscenza amorosa", già benevola e benefattrice. Il fine del piano divino è che i battezzati abbiano anch'essi il corpo glorioso, come quello di Gesù risorto. È questa l'immagine del Figlio, di cui qui parla s. Paolo. Il Cristo ha preso il nostro corpo affinché possiamo partecipare alla gloria del suo corpo risuscitato; ed egli sia come il primogenito (cf. Col. 1, 15) di una moltitudine di fratelli. Dunque, conformi al corpo glorioso del Cristo. Una catena di grazie è pronta, che va dalla chiamata, alla giustificazione, alla glorificazione anche del nostro corpo. Da parte di Dio, tutto è pronto; la forma verbale, passato remoto, è un'anticipazione di certezza. Spetta all'uomo non rompere tale catena di grazie col peccato; ma qui l'argomento della cooperazione umana esulava dal contesto; s. Paolo vi ritorna molto spesso, qui (Rom.) nella parte morale (cc. 12-15), e già nel c. 6; e nelle altre lettere (cf. 1Cor 9-10; Gal. 5, 16.6, 10 ecc.). Allo stesso modo, il termine eletti, spesso adoperato nel Nuovo Testamento (Rom. 8, 33; Col. 3, 12 ecc.); 1 Pt. 1, 1; 2, 4.6.9 ecc., sta per tutti i battezzati; mai esprime una classe a parte, tra i fedeli. Gli Apostoli chiamano eletti tutti i fedeli cui scrivono; sono gli uomini che han ricevuto la grazia della fede. Gli stessi eletti sono detti "chiamati"; vengono ripresi; possono decadere dallo stato di grazia (I Cor 9-10; Rom. 11, 20-23); devono rendere stabile con le buone opere la loro elezione (2Pt. 1, 10). Gesù esorta tutti i suoi discepoli a pregare incessantemente e a non disertare (Lc. 18, 7); gli eletti, sono tutti i suoi discepoli (Lc. 18, 1-7). Gli unici passi che sembrerebbero fondare una distinzione tra chiamati ed eletti; e identificare questi con una classe speciale di fedeli: «i predestinati infallibilmente alla salvezza», sarebbero Mt. 22, 14; 24, 22. «Molti i chiamati, ma pochi gli eletti». In realtà, gli eletti sono quelli che effettivamente partecipano al banchetto; chiamati quelli che Dio avrebbe voluto fossero partecipi al banchetto, quelli ai quali il pranzo era stato preparato, cioè il popolo eletto, tutti gl'Israeliti. L'espressione non è da staccare dal contesto, Gesù dice di «avere invitato tutti i Giudei, ma pochi han risposto alla sua parola»; è la situazione storica creata si di fronte alla missione del Salvatore (Brunec). Come a torto, viene citato Rom. 9-11. In questi cc., s. Paolo dimostra come l'essere Israele fuori della salvezza non costituisca un fallimento, sia pure parziale, del disegno divino, espresso nell'alleanza con Abramo. L'è che Dio non ha mai legato la salvezza a una questione razziale, a tutta la discendenza carnale. E questo dimostra, citando i casi del solo bacco, prescelto come erede della promessa, con l'esclusione degli altri figli di Abramo. Dio liberamente sceglieva Isacco, quindi Giacobbe ecc. Ma sia Giacobbe che Esaù non vengono considerati come persone, quanto come capi e simboli dei due popoli: israelita e edomita; Israele doveva i suoi privilegi unicamente alla libera e misericordiosa scelta di Iahweh. In tal modo, il fatto razziale era escluso. La questione della salvezza personale qui esula affatto: si tratta della partecipazione all'evangelo; come se ci si chiedesse, come mai Iddio permette che ad alcuni popoli della terra il vangelo non sia ancora predicato, mentre altri, forse più lontani ecc., hanno già i missionari. Concludendo, due concetti sono nettamente affermati: il disegno divino di salvezza è frutto esclusivo della sua misericordia; Dio ci previene con la sua grazia, sempre, dall'inizio al completa mento glorioso della nostra vita spirituale. E questo risponde al carattere universale della Redenzione (Mt. 28, 19) e alla volontà divina chiaramente espressa da s. Paolo: «Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità» (I Tim. 2, 4).
[F. S.]

BIBL. - M. J. LAGRANGE. Epitre aux Romains. Parigi 1931, pp. 213-18. 224-48; J. HUBY, La vie dans l'Esprit (Rom. 8), in RScR, 30 (1940) 32-35; M. BRUNEC, «Multi vocati, pauci electi», in VD, 26 (1948) 88-97. 129-43. 277-90.

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