SERPENTE DI BRONZO - SERVO DI IAHWEH - SHE'OL - DIZIONARIO BIBLICO

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SERPENTE DI BRONZO - SERVO DI IAHWEH - SHE'OL
SERPENTE DI BRONZO
Movendo da Cades verso Moab, dopo i ca. 38 anni passati nel deserto, e mentre, per il rifiuto degli Edomiti (Num. 20; 14-21), gli Ebrei dovevano avviarsi verso il golfo elanitico, per risalire dall'est verso il nord «il popolo incominciò a impazientirsi del cammino e sparlava contro il Signore e contro Mosè». Dei serpenti, inviati dal Signore, causarono allora, per punizione, la morte di un gran numero di ebrei. Terrificati, i ribelli riconoscono la loro colpa e supplicano Mosè di intercedere presso Iahweh. Questi gli dà l'ordine di costruire un s. di bronzo, e Mosè lo collocò su un'asta, in modo che quanti venivano morsi potessero vederlo ed esser guariti (Num. 21, 4-9). Gl'Israeliti trasportarono questo s. di bronzo a Gerusalemme e fu conservato nel Tempio; ma col tempo, divenne oggetto di culto idolatrico, sicché il pio re Ezechia lo fece fare a pezzi e bruciare (2Reg. 18, 4). Come ben nota Sap. 16, 16 s. il s. di bronzo era solo un pegno e simbolo di salute. «Infatti chi si volgeva a quel segno era salvo, non in virtù di quel che vedeva, ma per Te che sei il salvatore di tutti» (A. Vaccari). Era infatti uno sguardo' supplichevole che implorava il perdono da parte di Iahweh, riconoscendo che la morsicatura subita era un castigo per la propria colpa. Gli accostamenti operati (per Num.) con le concezioni religiose di altri popoli (Egitto, Babilonia, scavi di Gezer e Susa), circa la divinizzazione del s. e il potere magico di guarigione attribuito gli (Thereau-Dangin, in Revue d'histoire et de littér. religieuse, 1 [1896] 151-58), non hanno pertanto alcun fondamento; le analogie riguardano soltanto alcuni elementi esterni. Il culto idolatrico al s. di bronzo nel Tempio, fa parte di quel sincretismo, elemento essenziale della religione (v.) popolare, sviluppatasi solo a partire dalla scissione dei due regni in Israele prima e più tardi in Giuda. Gesù N. Signore (Io. 3-14 s.) dà il significato simbolico dell'episodio: il s. di Mosè era una figura profetica del Cristo Crocefisso: «Come Mosè innalzò... il s., così bisogna che sia innalzato (***: termine tecnico per la crocifissione) il Figliolo dell'uomo (cf. 12, 32), affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna».

BIBL. - A. CLAMER, Nombres (La Ste Bible, ed. Pirot, 2), Parigi 1940. pp. 369-72; F. M. BRAUN. S. Jean (ivi, 10), 1946, p. 335 s.; A. VACCARI, La S. Bibbia, I, Firenze 1943, p. 395 s.; VIII. ivi, 1950, p. 301.

SERVO DI IAHWEH
È il titolo e il soggetto dei quattro carmi di Isaia (42, 1.7; 48, 1-8; 50, 4-9; 52, 13-53, 12), che descrivono con efficacia e precisione straordinarie la missione redentrice del Messia, compendiando insieme le precipue caratteristiche del Salvatore, preannunziate altrove nel Vecchio Testamento e nello stesso libro di Isaia. La profezia riveste qui la luce, la precisione della descrizione; già s. Girolamo (Praefatio in Isaiam) chiamava Isaia "evangelista". Questi carmi sono le parti di un unico dramma, il cui tema è la redenzione dell'uomo ad opera del Messia; i cui protagonisti sono Iahweh e il suo "cultore per eccellenza" (= il suo "servo"), Dio egli stesso e uomo che muore e risorge, offre la sua vita alla morte più crudele e ottiene il trionfo più pieno. Partecipano a questo dramma i Giudei e tutta l'umanità.
Primo e Secondo Carme
Nel 1° carme, Iahweh presenta solennemente il suo eletto, oggetto delle sue compiacenze (la stessa espressione, ripete il Padre celeste, su Gesù, al battesimo e alla trasfigurazione:, Mt. 3, 17; 17, 5); ne delinea il carattere, ne specifica l'alta missione. Il suo S. è un profeta, un maestro pieno di pazienza e di benignità verso i deboli (42, 2), ricolmo dei doni (v.) dello Spirito, di Iahweh (cf. 11, 2); diffonderà la conoscenza di Dio e della sua Legge tra le nazioni. Iahweh lo ha scelto per essere "l'alleanza del popolo" cioè per rinnovare l'alleanza col suo popolo (42, 6); ma anche per predicare alle isole (42, 1-5), cioè alle nazioni più lontane, il diritto divino, cioè lo statuto che intende donare. Di questa nuova alleanza profeterà Ier. 31, 31-34; è il regno del Messia (Hebr. 8, 7-13); il diritto divino pertanto è la dottrina evangelica. Con un'immagine abituale in Isaia, l'opera del Messia è presentata come un'illuminazione (cf. 9, 2; Mt. 4, 14 ss.). Le tenebre dell'errore vengono fugate e gli uomini tenuti nella schiavitù da Satana riceveranno la piena libertà dei figli di Dio (42, 6). Il v. 4 accenna già alle difficoltà che il S. di Iahweh incontrerà nella sua missione. Alla presentazione di Iahweh, risponde lo stesso S. (20 carme); egli manifesta l'opposizione, le persecuzioni che subirà da parte di quelli cui è mandato, la sua completa unione con Dio, fonte della sua fortezza e del suo trionfo (49, 1-8). Non tutti includono i vv. 7-8 nel carme Il S., scelto per essere i'alleanza del popolo, si è dato al suo rude compito di predicatore tra i suoi. Ha lavorato indarno, Iahweh lo rassicura. La sua missione era più alta di quella di convertire soltanto Israele; la salvezza si estenderà fino alle estremità del mondo. E il S., disprezzato e tiranneggiato, finirà per ricevere l'omaggio dei re. E’ dunque perfettamente chiaro che il popolo d'Israele al quale il S. era inviato per convertirlo, gli ha usato disprezzo e avversione.
Terzo Carme
Nel 3° carme (50, 4-9), la situazione del S. è divenuta più critica. Quelli che voleva convertire si ergono contro di Lui e lo ricolmano di oltraggi, sebbene egli riferisca loro solo quello che Dio gli ha ispirato (v. 4); rispondono alle sue istruzioni con schiaffi e sputi. Egli domanda coraggiosamente di essere confrontato con i suoi avversari che lo trascinano in giudizio; egli si affida al soccorso divino. «Chi mi convincerà d'essere colpevole?» (Io 8, 66). Quelli che accusano il S. sono quelli steso si ch'egli voleva riformare, i suoi compatrioti. Il dramma ha nell'ultimo carme (52, 13- 53, 12) il suo epilogo sublime. I Gentili apprenderanno dopo qualche, tempo quello che è avvenuto; stupore sdegnoso alla vista dello stato miserando del S.; e meraviglia, ammirazione quando conosceranno bene i fatti prima ignorati e le mirabili conseguenze. I fatti sono le sofferenze ineffabili del S. di Iahweh; egli era una vittima, ma una vittima innocente: espiava i peccati del suo popolo. E così il S., è stato messo a morte, seppellito come un criminale. Questa morte era un sacrificio espiatorio, accettato come tale da Iahweh (53, 11 s.). «Chi avrebbe creduto a ciò che dovevamo annunziare? Chi avrebbe visto chiaro nell'azione di Iahweh?» .. (53, 16). «Non aveva bellezza, né grazia ... disprezzato, uomo di dolori, aduso alla sofferenza... Tuttavia egli ha portato i nostri dolori, si è caricato delle nostre sofferenze ... Egli era trafitto a cagione dei nostri delitti... Ciò che pesava su di lui era la nostra riconciliazione... Iahweh ha fatto ricadere su di lui ciò che era dovuto a tutti noi. Maltrattato si rassegnava... E’ stato tolto via con un giudizio abominevole e chi riflette ai (chi valuta o può valutare la crudeltà, la cecità bestiale dei) suoi contemporanei? Così è stato spazzato via dalla terra dei viventi, è stato colpito a morte per i delitti del mio popolo...». «E lo scopo è stato raggiunto. Il giusto sofferente, ucciso, ha meritato, ha acquistato la giustizia agli altri. Dopo la sua morte avrà una posterità spirituale e sarà per un tempo indefinito lo strumento, della salvezza accordata da Iahweh. La risurrezione è supposta nella promessa di vittoria, espressa al modo antico di una battaglia vinta, di un bottino che si divide» (Làgrange). È impossibile contestare la rispondenza tra la profezia e la realizzazione in Gesù N. Signore. Gli esegeti, anche increduli, risentono dell'emozione davanti a questo carme, culmine delle profezie d'Isaia sul S. di Iahweh, la cui somiglianza col Ps. 22 [21] colpisce immediatamente. Gli Apostoli citano parecchi brani di questo quadro incomparabile, per dimostrare la loro realizzazione nel Cristo Gesù (cf. Mt. 8, 17; Mc. 9, 11; 15, 18; Lc. 22, 31; Io. 12, 38; At. 8, 32; Rom. 10, 16; 15, 21; I Cor. 15, 3 ecc.). Giustamente la tradizione cattolica (e tra gli stessi acattolici, North) è unanime nell'applicare tutto al Cristo paziente. [F. S.]

BIBL. - M. J. LAGRANGE, Le Judaisme avant Jésus-Christ, Parigi 1931, pp, 368-81; A. VACCARI, I carmi del Servo di Iahweh, in Miscellanea Biblica, II, Roma 1934, pp. 216-44; J. S. VAN DEL PLOEG, Les chants du Serviteur de Jahvé, Parigi 1939; CH. R. NORTH, The suffering Servant, in Deutero-Isaiah, Londra 1948; F. SPADAFORA, Temi di esegesi, Rovigo 1953, pp. 204-217.

SHE'OL
(LXX ***, ***, Volg. Infernus). È l'oltretomba ebraico. L'etimologia rimane incerta. Lo S. è una terra, eres (I Sam 28, 13 ecc.) come l'oltretomba sumerico è KI, KIGAL (donde per G. Dossin deriva S.). Cf. kigallu degli assiro-babilonesi e tutte le altre espressioni: irsitu rabitu (grande terra), irsitu rapastu (vasta terra), irsitu ruqtu (sum. KURSUD, KI-SUD terra lontana), irsit mituti (terra dei morti), irsit tamhi (terra del lamento). A Ugarit ars e in Grecia *** significano e la terra e il mondo infernale. Terra senza possibilità di ritorno (Iob 7, 9 s.; 10, 21) come KUR-NU-GI-A sumerico o irsit-matu-asar la tari (terra, paese, luogo senza ritorno). Lo S. è sotto il suolo (Is. 14, 9; Deut. 32, 22 ecc.) come nei testi assiri. Bor (Prov. 1, 12) e l'acc. berutu (profondità) esprimono l'oltretomba. «Discendere allo S.» (Gen. 37, 35; 42, 38; 44, 29.31) ed espressioni affini (Ez. 32, 19.29- 30) significano "morire". Lo S. è casa di tenebre (Iob 10, 21 s.; 17, 3; cf. Mt. 8, 12; 22, 13; 25, 30; 2Pt. 4, 18), bit ikliti (casa di tenebre): Arali, Arallù (asar la amari = luogo senza vista. Cf. però AJSL, 1919, p. 191). Anche *** significa «senza vista»: *** privativo e la radice *** (vedere) cf. Sofocle, Aiace, 394 ss. Lo S. è una casa ed ha porte (Is. 37, 10; Sap. 16, 13 ecc.) e portinai (*** dei LXX di Iob 38, 17). Lo S. ha dei lacci (Ps. 18, 6; 116, 3); come la rete per gli Assiro-babilonesi fa precipitare nell'inferno. Lo S. è luogo di polvere: l'uomo fatto di argilla, finisce in polvere e in luogo di polvere (Is. 26, 19; Iob 7, 21; 17, 26; 20, ecc.; Dan. 12, 2). Enkidu nel poema di Gilgames chiama l'oltretomba «casa di polvere» e nella discesa di Istar si parla «di dimora... ove la polvere è il nutrimento e il fango alimento». Allo S. si discende nudi (Iob 1, 21; Eccl. 5, 14; cf. 1 Tim. 6, 7) e vi si gode la compagnia dei vermi (Iob 17, 13; 21, 26). Abitanti dello S. sono tutti gli uomini (Iob 30, 23): i Rephaim (le ombre: rp' «essere fiacco» cf. ugaritico rpum: Is. 14, 9; 26, 9; Ps. 88, 13; Prov 19 s.; 9, 18; non dissimili gli etimmu assiro-babilonesi), i circoncisi, gli eroi, i guerrieri (Ez. 32, 21 s.). Lo S. è insaziabile (Is. 5, 14; Prov 1, 12; 27, 20), Lo S. non ha però un pantheon: la regina Ereskigal o Persefone né Pluto o Nergal o Mot, né lo scriba della terra o gli Anunnaki come giudici. Il sovrano è Iahweh (Ps. 139, 7 ss.) la cui giustizia è nota nello S. (Ps. 138, 13), sebbene ivi nessuno lodi Dio (Ps. 6, 6; 30, 10; 88, 13; 115, 17; Is. 38, 18 s.) che, secondo Ps. 88, 8, dimentica i morti e non sarà più visto da essi (Is. 38, 11); v. Morte; e Retribuzione. I testi biblici escludono ogni culto alle ombre. Eccli. 30, 18 deride l'uso dei Gentili di offrire alimenti ai morti. Il massimo castigo per i Babilonesi (cf. codice di Hammurapi R. 27, 37-40) è la privazione di un nàq mè «colui che versa l'acqua» per il refrigerium. Cf. Lc. 16, 24.
[F. V.]

BIBL. - P. DHORME, Le séjour des morts chez les Babylaniens et les Hébreux, in RB, 16 (1907) 59-67; ID., L'idée de l'au-delà dans la religion hébraique in RHR, 123 (1941) 113- 42; C. J. Mc NASPY, 'Sheol in the Old Testament, in The Catholic Biblical Quarterly, 6 (1944) 326-33.

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