Mito - DIZIONARIO DI PASTORALE

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Mito

M
di J. Martínez Cortés
Bisogna cominciare col dire che la parola mito si applica in vari modi. Questa pluralità di significati, che rende tanto difficile una definizione valida per tutti, è dovuta in gran parte alla diffusione del termine denso di valori. Così, da un uso specializzato, si è passati ad un uso più ampio e più impreciso (per esempio: nella stampa o in dichiarazioni politiche). A quanto è favoloso, straordinario, incredibilmente prestigioso, può essere data l'etichetta di mito. Però, riveste anche la nota peggiorativa, nel senso di fittizio, cioè, non vero.
Perfino nella sua accezione più accademica e ristretta la definizione di mito è problematica. Può essere riassunta nella semantica della voce greca: la radice di mýthos significa: ricordarsi, considerare, riflettere. Nei primitivi testi greci, « mýthos » può significare il tenore esatto degli avvenimenti. Col tempo, questo vocabolo acquistò il significato di leggenda o narrazione popolare, in contrapposizione a lògos (Platone). Poi, significò opera poetica creatrice (Aristotele). Più tardi ancora, è stato usato nel senso di « mentire » (Luciano).
Attualmente, le definizioni sono forse tante quanti sono i punti di vista. Tra gli antropologi, sia funzionalisti (Malinowski, M. Eliade), che strutturalisti (Lévi‑Strauss), si è pensato di trovare un'unica funzione significativa nei miti: o nel loro significato sociale (i miti spiegano l'ordine del mondo), o nel loro valore come strumento intellettuale per una mentalità arcaica. Questi tentativi sono stati fortemente chiarificatori, ma si continua a dire che non c'è un'unica definizione del mito: i miti differiscono enormemente nella loro morfologia e nella loro funzione sociale.
Ammesso questo, sembra tuttavia necessario giungere ad un nucleo semantico che permetta di distinguere quando si tratta di un tipo di mito e quando no. Per « mito », si può intendere un racconto tradizionale che riferisce l'attività degna di memoria ed esemplare di alcuni personaggi straordinari, in un tempo prestigioso e lontano.
Qui, sembrano entrare tanto
1) la tesi secondo cui il mito non ha nulla a vedere con la religione. Questa tesi viene appoggiata dall'etimologia e dall'uso più antico del termine: i miti sarebbero racconti eziologici, che intendono spiegare avvenimenti ordinari nelle loro origini (c'è così un mito mesopotamico sul dolore dei molari); come anche
2) la tesi che sembra semplificatrice, secondo cui i miti sono sempre storie di dèi. Da ciò, si dedurrebbe che la mitologia è una parte della religione (De Vries); come anche
3) la tesi eclettica: ammettendo che molti ed importanti miti parlano di dèi, si riconosce che ci sono racconti mitici lontani dall'elemento religioso e più connessi col « racconto popolare ». Potrebbe entrare in questo nucleo semantico anche
4) l'interpretazione psicanalitica del mito, che lo mette in relazione con certe strutture archetipo dell'inconscio (Jung).
Tra le moltissimi classificazioni dei miti, può essere significativa quella che poggia sul rapporto del mito con la storia, o con la natura. Riguardo alla storia, occupano un posto predominante i miti delle origini primordiali: la creazione, il paradiso, e, con minore frequenza, anche una condizione primitiva allo stato selvaggio. Avvenimenti catastrofici, del tempo primordiale: diluvi. Però, il pensiero storico dei popoli raggiunge il suo punto culminante nell'introdurre nel pensiero mitico l'idea del futuro, in particolare, quella della fine dei tempi (miti escatologici).
Riguardo alla natura, i miti personificano fenomeni come il fulmine, la pioggia, il vento, l'aurora. Sono serviti come base ad una teoria naturalista del mito che cerca di spiegare l'origine della religione insistendo sull'impressione molto forte che la violenza degli elementi naturali dovette produrre sulla fantasia dell'uomo primitivo.
Per quello che si riferisce alla valutazione del mito, autori prestigiosi dell'antichità li hanno ritenuti dei racconti allegorici che, sotto un travestimento poetico, nascondevano una perenne sapienza. Questa opinione, molto nota nel Medioevo, trovò nel Rinascimento una accettazione straordinaria. Alla luce del neoplatonismo, gli umanisti scoprirono nei miti molto più di idee morali: una dottrina religiosa e perfino un insegnamento cristiano. L'interpretazione simbolica permise loro, infatti, di decifrare, sotto le finzioni più varie, e quelle apparentemente meno edificanti, la parentela fondamentale di questa sapienza profana con quella della Scrittura.
La teologia moderna delle grandi confessioni cristiane ha provato, in vari modi, di adottare un atteggiamento positivo di fronte al mito. La tematica ha raggiunto il grande pubblico con la controversia suscitata da Bultmann (1941) col suo programma di demitologizzare il messaggio del vangelo, cioè, di interpretare nel suo significato reale le formule « mitologiche » di cui è rivestito. Secondo Bultmann, il mito è una forma di pensiero che cerca di esprimere il divino con un linguaggio umano. Questa espressione umana rimane necessariamente legata al tempo e inquadrata nell'immagine mitica del mondo che si aveva all'epoca del NT. Oggi, però, è incomprensibile per l'uomo contemporaneo, di modo che egli sente la tentazione di respingere anche il messaggio assieme all'elemento mitico. Il programma di Bultmann presenta due versanti. Da una parte, egli vuole sottolineare gli aspetti inesatti delle immagini mitologiche, ritenute per vere. Dall'altra, egli vede anche che non è possibile respingere l'elemento mitologico del NT (che egli contrappone all'elemento storico in modo eccessivamente unilaterale), senza dover penetrare nella totalità del racconto per raggiungere il suo vero intento. La sua insistenza sull'aspetto concreto e soteriologico del cristianesimo mostra che egli ha colto l'aspetto funzionale di ogni mito: la sua attualità operante. Il mito riassume, in una breve narrazione, un intervento divino. Questo intervento rivive nuovamente nel mito. Risulta, dunque, che mito, rito o culto sono intimamente legati tra di loro.
All'interno di questa concezione, appartiene all'essenza propria del mito la convinzione che la narrazione mitica è, nel suo fondo, vera (pensiero simbolico) ossia, è il prodotto della riflessione genuina sulla realtà stessa delle cose e può « tradurre » l'intervento divino (linguaggio religioso). Questa verità del mito può essere un principio astratto (Dio è misericordioso); può essere un fatto concreto perfino un evento storico può costituire un mito (Van der Leeuw). Superato il positivismo, sotto vari aspetti, viene abbozzata oggi una riabilitazione del mito. La sua « assurdità » non è più denunciata come uno scandalo logico: è sentita come una sfida lanciata per comprendere l' »altro »  una rottura di livello epistemologico  ed incorporarlo al sapere antropologico.

Bibliografia
Aa.Vv., Capire Bultmann, Ed. Borla, Torino, 1971. Bergson H., Le due fonti della morale e della religione, Ed. Comunità, Milano, . Betori G., « Mito », in: Nuovo dizionario di teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 993‑1012. Bultmann R., Credere e comprendere, Ed. Queriniana, Brescia, 1977. Cassirer E., Linguaggio e mito, Ed. Il Saggiatore, Milano, 1968. Dumezil G., Mito e epopea, Ed. Einaudi, Torino, 1982. Eliade M., Il mito dell'eterno ritorno, Ed. Rusconi, Milano, 1974.
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