Dolore - DIZIONARIO DI PASTORALE

Vai ai contenuti

Menu principale:

Dolore

D
di A. Guerra
Il dolore, inteso come malessere personale, si riflette sul volto e sulla vita. Rughe di dolore e curve di tragedie parlano più delle parole e degli spasimi per quanti vivono fuori da queste situazioni dolorose. Può recare dolore anche chi, magari con retta intenzione, pensa di sollevare il dolore altrui manifestando il suo. D'altra parte, la mancanza di dolore non è un segno di vita, ma di non‑solidarietà. Se, infatti, uno non soffre, ciò si deve non solo al fatto che non patisce, ma anche al fatto che non compatisce.
Ci sono sempre dei « consolatori importuni » (G. Gutiérrez), disposti a spiegare il dolore altrui, non il loro, ricorrendo a cause tradizionali che cercano la radice del dolore fuori della storia, in un misterioso destino che indica la croce come voluta da Dio per la purificazione della storia. Questa visuale, che era quella dei compagni ed amici di Giobbe (antichi e moderni) fu allora smentita da JHWJ e oggi, dalle persone normali.
Questi consolatori importuni dimenticano che la radice del dolore umano non può essere cercata fuori della vita e della storia. C'è qui una risposta che, se non è completa, (questa è molto difficile), ha, almeno molto a vedere con la realtà. Il dolore non è una questione di fatalismo, ma di forze storiche. Per questo, è necessario combatterlo, nella misura del possibile. Chi lo combatte afferma con ciò stesso la possibilità di superarlo. Se non fa così, si limita a sopportarlo.
È stato detto che « il male non esiste per essere compreso, ma per essere combattuto » (L. Boff). Questa espressione indica in modo molto sensibile la predilezione per l'ortoprassi sull'ortodossia.
Guardando il mondo più normale della realtà, questa affermazione si impone senza difficoltà, almeno pensiamo. Colui che soffre vuole la comprensione della sua sofferenza solo come mezzo per superarla.
La lotta nelle sue varie incarnazioni è il superamento della rassegnazione, di una falsa mistica della croce, di un fatalismo alle volte masochista e della indifferenza ammantata dell'immutabilità greca (una delle piaghe più nefaste della spiritualità.
La croce di Gesù è un buon simbolo incarnato del dolore umano. C'è chi ha detto che la sofferenza si è fatta mistero in Giobbe e redenzione in Gesù (H. Küng). A noi adesso interessa soltanto stabilire un rapporto intimo tra dolore e croce.
La croce di Gesù, come simbolo e spiegazione del dolore umano, è cambiata, come è cambiata la teologia della croce e la teologia del dolore di Dio. La prima scoperta è stata questa: che Dio si rivela anche sulla croce (e non solo nella gloria) e che il dolore è una dimensione di Dio.
Queste varie teologie manifestano dove stanno fondamentalmente le cause che portano alla croce, alla sofferenza, all'atteggiamento compassionevole di Dio di fronte a colui che soffre nella condanna di queste cause della croce. Il dono supremo della risurrezione è la parola definitiva del superamento della croce, e, forse soprattutto, della condanna delle cause che originano ed infliggono la croce.
Sarebbe un errore grave, od una grande ingenuità, pensare che la lotta e la teologia riusciranno a superare il dolore o almeno a renderlo amabile. No. Il dolore continuerà ad esistere, ed il cristiano, appunto perché tale, continuerà a soffrire.
Primo, perché lo stesso concetto di lotta comporta sofferenza. Costatare la resistenza alla verità e alla giustizia, porre barriere ed impugnare armi è doloroso per una mente nobile. Soprattutto se questo non è un semplice concetto, ma un'incarnazione nella persecuzione e nella morte dei combattenti. Combattere il dolore non è così semplice come potrebbe pensare qualcuno.
Secondo, perché la prassi è caparbia. Chi parte dalla statistica (quantificazione incorruttibile della prassi) per vedere se la lotta continua ad essere necessaria, non può ignorare che i numeri di coloro che soffrono crescono come un torrente. Non sempre si combatte guadagnando terreno. Bisogna confessare che spesso aumenta la famiglia e cresce il dolore.
Terzo, la storia è non solo plurale, ma è plurale dogmaticamente. Ci sono convinzioni dogmatiche, oggettivamente dense di vita, che causano sofferenze enormi. Questa è forse la più grande sofferenza: sapere e sperimentare che non si tratta di combattere il dolore, questo è logico, ma c'è da soffrirlo, perché la croce continua ad essere presente, quasi inalterabile ed inamovibile, mentre la vediamo crescere ed assumere forme criminali. Noi non possiamo dire molto di più sul dolore. Speriamo che un giorno il Signore della vita e della risurrezione ci farà vedere tutto questo mondo e ci spiegherà i suoi meccanismi. Di più: mentre cerchiamo già qui l'ortoprassi, speriamo di poter vivere questa promessa fatta realtà: « E non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno perché le cose di prima sono passate » (Ap 21,4).

Bibliografia
Bernard C.A., Sofferenza, malattia, morte e vita cristiana, Ed. Paoline, Cinisello B., 1990. Galot J., Perché la sofferenza?, Ed. Ancora, Milano, 1986. Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica « Il valore salvifico del dolore », 11.2.1984 Martina C.M., Avete perseverato con me nelle mie prove. Riflessioni su Giobbe, Ed. Piemme, Casale M., 1990. Serentha' M., Sofferenza umana. Itinerario di fede alla luce della Trinità, Ed. Paoline, Cinisello B., 1993.
Home | A | B | C | D | E | F | G | I | K | L | M | N | O | P | Q | R | S | T | U | V | Z | Esci | Mappa generale del sito
Torna ai contenuti | Torna al menu