Lavoro - DIZIONARIO DI PASTORALE

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Lavoro

L
di L. González‑Carvajal
Il lavoro è un costitutivo dell'essere umano, tanto che molti antropologi ritengono l'invenzione degli attrezzi come l'atto di nascita dell'uomo. In accordo con questa affermazione è il racconto jahvista della creazione in cui si dice che il Signore pose l'uomo « nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse » (Gen 2,15). Dio non aveva fatto ciò con gli animali. Nel racconto sacerdotale, viene detto ancora di più quando si afferma che l'uomo è fatto « ad immagine e somiglianza di Dio », e che per questo, ha il potere di soggiogare la terra (Gen 1. 27‑ 28). L'uomo appare come un mikroktìstes (un « piccolo creatore ») che col suo lavoro continua l'attività creatrice di Dio. Viene detto espressamente: « Il farmacista prepara le miscele. Non verranno meno le sue opere » (Sir 38,8). Pertanto non si può affermare come un assoluto che il lavoro è un castigo imposto da Dio all'uomo. Quello che va interpretato come « castigo », non è il lavoro, ma il suo carattere spesso gravoso (Gen 3,17‑19). Però, non dobbiamo pensare che questo aspetto oneroso del lavoro sia un castigo introdotto da Dio dal di fuori: si tratta di un disordine introdotto dal di dentro da colui al quale Dio aveva affidato il mondo perché lo dominasse. È stato introdotto da allora, ma contro il volere di Dio. È importante notare che la magnificenza dei monumenti compiuti in Egitto durante la XIX dinastia non giustifica agli occhi di Dio lo sfruttamento dei lavoratori israeliti che li hanno fatti (Es 1,11‑14). JHWH si manifesterà proprio come Colui che libera il popolo da una simile oppressione.
Giovanni Paolo II ha chiamato « lavoro in senso oggettivo » (Laborem exercens 5) le possibilità che vengono offerte per dominare il creato. Non occorre dire che, soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale, la dimensione oggettiva è stata potenziata in modo spettacolare. Nello stesso documento, il Papa ricorda che il lavoro ha anche una « dimensione soggettiva » (Laborem exercens 6). Questa permette all'operaio di autorealizzarsi e di autoesprimersi (Unamuño parlava del ciabattino che era riuscito ad essere così insostituibile per i suoi conterranei che ne avrebbero sentito la mancanza quando fosse loro morto: quando « fosse loro morto », non solo quando « fosse morto ».). Il papa afferma che, in caso di conflitto tra la dimensione oggettiva e quella soggettiva del lavoro, si deve dare la precedenza a quest'ultima, perché l'uomo è più importante delle cose. Purtroppo, è spesso accaduto il contrario, e nella nostra civiltà industriale, quanto più si è sviluppata la dimensione oggettiva, e tanto più è andata peggiorando quella soggettiva, come conseguenza, alle volte, della realizzazione di compiti monotoni, ripetitivi e frammentati fino all'assurdo. Oppure, altre volte, si è trattato di lavori spossanti e mal retribuiti. Come diceva un operaio, « quasi tutti abbiamo alcuni compiti che sono troppo piccoli per il nostro spirito ».
Inoltre, se si continua a dare importanza unicamente alla dimensione oggettiva del lavoro, non solo sarà inevitabile l'alienazione degli operai, ma si prescinderà da coloro che non sono necessari (i disoccupati), o che non riescono ad adattarsi ad un certo minimo di produttività (gli handicappati). La rivalorizzazione della dimensione soggettiva mostra che anch'essi hanno il diritto di realizzarsi mediante il lavoro, e non solo, nel migliore dei casi, di godere dei beni che sono stati conseguiti con lo sforzo altrui (Laborem exercens 22). Comunque, non intendiamo dire che si debba vedere nel lavoro l'unica fonte di realizzazione umana. Questa precisazione sembra specialmente importante oggi in cui i progressi tecnici fanno già pensare ad una civiltà dell'ozio.
D'altra parte, una comprensione esatta del significato della dimensione oggettiva deve condurre alla convinzione che non ogni lavoro è lecito. Ci sono dei lavori che, invece di dominare la terra, la distruggono (cf Ecologia). Altri lavori, come avviene con la fabbrica delle armi, minacciano la sopravvivenza della stessa umanità (cf Violenza). Conseguentemente, una corretta spiritualità del lavoro non potrà badare soltanto alle disposizioni soggettive dell'operaio, ma dovrà anche interrogarsi sul valore oggettivo del lavoro. La questione decisiva è se i frutti del lavoro entreranno o meno, in qualche modo, nella costruzione del Regno.
Ci troviamo, difatti, davanti ad un aspetto decisivo. Anche non condividendo l'idea di Charles Péguy, secondo il quale Notre‑Dame di Chartres e Notre‑Dame di Parigi devono essere eternamente presenti davanti a Dio come testimoni degli esiti umani, che sarebbe di un pittore senza la sua opera? di un musico senza le sue sinfonie? di un poeta senza le sue poesie? Che dire dell'estensione straordinaria dell'industria moderna? degli ingegneri e degli operai? Non rimarrà proprio nulla? Come dobbiamo intendere la frase: « Le loro opere li seguono » (Ap 14,13)? Il Concilio Vaticano II afferma: « Tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, ma illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il regno eterno ed universale » (GS 39).

Bibliografia
Alfaro J., Teologia del progresso umano, Ed. Cittadella, Assisi, 1972. Bianchi G., Dalla parte di Marta: per una teologia del lavoro, Ed. Morcelliana, Brescia, 1987. Chenu M.D., Per una teologia del lavoro, Ed. Borla, Roma, 1964. Giovanni Paolo II, Enciclica « Laborem exercens », 14.9.1981. Mattai G., « Lavoro », in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 621‑634. Noto V., Creazione e lavoro, Coines, Roma, 1972. Pizzuti D. (a cura di), Per una teologia del lavoro nell'epoca attuale, Ed. dehoniane, Bologna, 1985.
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