Tradizione - DIZIONARIO DI PASTORALE

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Tradizione

T
di E. Villanova
La tradizione, legge essenziale della parola di Dio nella comunità‑ Chiesa, non implica una specie di immobilismo, nella trascendenza totalmente oggettiva e spersonalizzante di una serie di proposizioni dogmatiche e di precetti morali.
La tradizione è la presenza della parola di Dio, sempre identica a se stessa, ma continuamente incarnata nell'uomo che l'ascolta e che si dispone ad ascoltarla in un luogo preciso e nella situazione in cui si trova, nello spazio e nel tempo, nell'ambiente che lo circonda, nei condizionamenti economici, sociali, culturali che, ad un tempo, lo rinchiudono e lo esaltano.
Per parola di Dio non si deve intendere soltanto una serie di vocaboli pronunciati (o scritti): è un complesso di comunicazioni e di interscambi, di fatti, gesti, azioni, comportamenti, sguardi, perfino silenzi, che stabiliscono tra Dio e gli uomini la comunione di un dialogo. Questo dialogo ci porta ad un rapporto psicologico irriducibile a misure concettuali, anche se esso è denso di comprensione. La tradizione, nel corpo ecclesiale e conforme alla struttura ecclesiastica, è la trasmissione organica della parola di Dio, in cui le necessarie e autentiche proposizioni formulate trovano radice e linfa nell'humus copioso di gesti, segni, sacramenti, pratiche e consuetudini, con le loro ricche implicanze mentali, all'interno della comunità.
Così, le stesse parole di Gesù hanno trovato il loro senso pieno soltanto partendo dalle interpretazioni che hanno dato di esse i testimoni della sua vita. Noi le comprendiamo unicamente mediante la tradizione di quella comunità viva costituita dai discepoli di Gesù.
Il valore attuale della parola di Dio riceve la sua forza dalla vita stessa della comunità‑Chiesa. Per questo, è indispensabile considerare la teologia stessa come memoria riflessiva della vita della Chiesa, memoria capace di comunicarsi. È naturale che la tradizione abbia una funzione di trasmissione che comprende tre momenti: quello della ricezione o dell'invenzione (non si inventa se non quello che si è ricevuto sotto altre forme), quello del possesso (la tradizione ci arricchisce e noi la arricchiamo esercitando su di essa un'azione trasformatrice, forse senza rendercene conto), quello della comunicazione che è il momento più delicato. Di questi tre momenti, è difficile cercare quello dominante. Si può accentuare la recezione: allora, ci poniamo in ascolto del passato, per non perdere le sue lezioni; la virtù che sgorga da questo atteggiamento è la fedeltà. Il possesso sembra avere più rapporto col momento attuale e suppone una fermentazione dei dati ricevuti, sempre collegati con la nostra situazione presente che si esprime in una prassi concreta. Una tradizione non deve mai ripetersi; può solo essere vissuta. La trasmissione, orientata al futuro, sente la duplice difficoltà dell'insufficienza del linguaggio e dell'intento di fedeltà nel comunicare il messaggio (si corre sempre il rischio di non essere compresi o di non esserlo completamente).
Questi problemi ci obbligano a interrogarci sulle origini genuine del concetto neotestamentario di tradizione. Si sostiene spesso la tesi secondo cui questo concetto non sarebbe altro che la dottrina dei primi testimoni oculari e auricolari, trasmessa secondo le leggi del metodo di trasmissione ebraico. È un concetto particolare soprattutto nella teologia di Luca e nella letteratura deutero‑paolina: questo concetto si trova soprattutto nelle lettere pastorali, che non sanno affrontare la difficile situazione della comunità di allora se non legandosi a formule di fede perfettamente determinate. Già nei primi secoli, perché la tradizione non conduca ad una comunità fanatica di illuminati, si impongono criteri oggettivi della tradizione. Pertanto, occorre una regula fidei. Il significato restrittivo di questa formula si è generalizzato solo nell'epoca moderna, favorendo una mentalità conservatrice della tradizione.
D'altra parte, i protestanti, non tollerando l'abuso di interessi ecclesiastici,(che potenziarono la tradizione, o meglio, le tradizioni, considerandola come fonte della rivelazione accanto alla Scrittura), spinsero la comunità ad una delimitazione critica che sfociò nel principio Sola Scriptura. Per confutare questa dottrina protestante, i controversisti romani, nell'intento di dare il maggior spazio possibile alla tradizione, ridussero sempre più l'importanza della Scrittura: si ripeteva che la Scrittura senza la tradizione è qualcosa di morto e di oscuro, e soprattutto qualcosa di incompleto. Conseguentemente, bisognava darle vita, interpretarla e completarla mediante la tradizione, che ben presto venne confusa col magistero gerarchico, evidentemente esaltato. Sebbene i documenti ufficiali del Concilio di Trento e del Vaticano I non si siano spinti così tanto, tuttavia, essi riflettevano chiaramente la preoccupazione di distinguersi negativamente dal principio protestante della Sola Scriptura più che la preoccupazione di mettere in risalto l'importanza ed il significato positivo della Scrittura.
Le affermazioni del Concilio Vaticano II rappresentano una svolta importante a questo riguardo. Per la prima volta nella storia, il Concilio Vaticano II cercò di esporre la dottrina cattolica non su un piano polemico e negativo, ma positivo. Per questo, viene ribadito con forza che la Scrittura e la tradizione non possono mai essere sganciate l'una dall'altra. Però, con questo, non è ancora detto tutto. La Costituzione Dei Verbum non parla della Scrittura e della tradizione come di due fonti della rivelazione, ma parla della trasmissione di questa rivelazione. In questo modo, la Costituzione adotta il punto di vista della storia della salvezza che continua tuttora, e non quello che va alla ricerca delle verità rivelate, depositate nelle « fonti ». L'interesse della Costituzione è tutto sull'unità viva e sul vincolo essenziale tra Scrittura e tradizione, di modo che « non si può più parlare di una sovrapposizione puramente esterna dei due modi di comunicare la rivelazione divina, né di una limitazione della tradizione alle verità che non sono contenute nella Scrittura » (J. Beumer).

Bibliografia
Congar Y., La Tradizione e le tradizioni, 2 voll., Roma, 1961‑1965. Fisichella R., La Rivelazione: evento e credibilità, Ed. dehoniane, Bologna, 1985, pp. 105‑131. Geiselmann J.R., La Sacra Scrittura e la Tradizione, Brescia, 1974. O'Collins G., Teologia fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1982, pp. 240‑280. Ppttmayer H.J., « Tradizione », in: Dizionario di Teologia Fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1990, pp. 1341‑1349. Rahner K. ‑ Ratzinger J., Rivelazione e Tradizione, Ed. Morcelliana, Brescia, 1970. Waldenfels H., Teologia fondamentale nel contesto del mondo contemporaneo, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 574‑610.
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